Regia di Roberto Andò vedi scheda film
Con i suoi mille, Garibaldi (Ragno) sta cercando di conquistare la Sicilia e di entrare a Palermo. Per farlo, ha bisogno che una parte dei suoi esegua una manovra diversiva per ingannare l'esercito borbonico, credendolo in fuga. La responsabilità dell'ardita azione ricade sul colonnello palermitano Orsini (Servillo). Con lui, tra i tanti arruolati, ci sono due vecchie conoscenze (Ficarra e Picone), subito trasformatisi in disertori ma che, dopo alterne fortune, si ritrovano a indossare la giubba rossa per la seconda volta, trasformandosi in eroi.
Con L'abbaglio, Roberto Andò riassembla il trio che gli aveva garantito il successo al botteghino con La stranezza, adottando lo stesso modulo narrativo, che procede su due linee di racconto che si incontrano solo all'inizio e alla fine del film. Ma stavolta il regista siciliano, con un perfetto mix di raffinatezza (leggi alla voce Sciascia) e cinema popolare, riesce anche a firmare il suo film di gran lunga più indovinato, un apologo sull'ethos italiano chiarito già a partire dal titolo: l'abbaglio rispetto alla convinzione di poter davvero fare la rivoluzione, cambiare il paese, riuscire e restituire dignità agli ultimi, per poi ritrovarsi nella solita condizione gattopardesca. Imboccando tanto la strada del racconto picaresco, quanto quella - meno riuscita - dello spiegone che, riferendosi a ieri, ci parla di oggi, il film mette a nudo le caratteristiche tipiche degli italiani, quella miscela di opportunismo, generosità e benaltrismo espresso soprattutto dai due dioscuri, la cui presa di coscienza è, in fondo, il tema portante dell'opera.
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