Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
Non c’è bisogno di commentare l’uso platonico del nome Quentin Tarantino, come centro d’attrazione per le moltitudini rimaste incantate dall’atmosfera orientaleggiante a colpi d’arti marziali che contraddistingueva i due “Kill Bill”, e trasmutata qui in antico raffronto cinese tra le imponenti masse d’arcieri, comandate da artisti della spada, dediti scrittori ed abili giustizieri. L’infiacchito plot è interamente al servizio dell’immagine, certo suggestiva, nitida, stilizzata, coreografica, ma altresì tremendamente finta, irregolare, pedante e assidua carnefice di razionalità, impoverita insomma della tanto ipotizzata originalità che dovrebbe poi stare alla base dell’elemento film. Ci sono combattimenti riferibili soltanto all’assenza di classificazione temporale matrixiana, indotti a rivelarsi, durante tutta la seconda parte, esclusivo pretesto di ralenti enunciativi del non stazionato background, di dialoghi inutili sulla filosofica profondità di senso attribuibile alla spada, e di costruite prese coscienza sulle spalle di personaggi fin dall’incipit impossibilitati a esercitare insondato interesse. La mancanza di idee e di spunti filosofici ancestrali, colpisce qui più d’ogni altra cosa, tutto è opacamente impersonale, reso cavilloso da musiche e immagini che stancando i sensi, riducono l’unica trasmutazione positiva del film, un raffronto d’orgoglio e di virtù, di disegno perfetto quanto inconsistente.
Nell’anno 2200 a.C. la vita del Re del regno di Qin è minacciata da tre guerrieri assassini, che vedranno però precaria la loro posizione quando uno di essi difenderà il sovrano.
L’operazione commerciale realizzata con “Hero” si rivela quindi fintamente avvincente, priva di vero fascino esecutivo, composito assemblaggio di pomposità cadente in epigrafi da il più somigliante “La tigre e il dragone”, e dal cinema che comunque gira intorno ad un nucleo attrattivo, più di negligente negoziazione cinematografica che di pretestuosa qualità tecnica tirannicida.
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