Regia di Pupi Avati vedi scheda film
CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: L’ORTO AMERICANO
L’orto americano è una conferma di quello che sappiamo già tutti noi amanti del cinema, Pupi Avati è un regista che dà il suo meglio nel thriller gotico. Con storie che mescolano personaggi inquietanti e storie che ti danno speranza, l’ignoranza contadina della bassa padana e l’alta cultura dei protagonisti che vengono soggiogati e violentati dalla realtà che li circonda.
Il paradosso è che quest’ultima opera dell’86enne regista bolognese esce nei cinema proprio nel 50esimo anniversario dell’uscita di Profondo Rosso, quasi come un segno di continuità di questi vecchi maestri che sanno ancora spaventare.
Dopo È stata la mano di Dio, Filippo Scotti diventa l’alter ego funebre di un altro grande regista italiano. Se per Sorrentino è stato il tramite per metabolizzare la morte dei genitori, nell’Orto Americano si appropria della sua macabra consuetudine di parlare con le foto dei defunti.
Una consuetudine che nel 1944 ti porta dritto al manicomio con tanto di elettroshock. E così questo ragazzo senza nome e senza famiglia si ritrova nel bel mezzo dell’Iowa per poter scrivere il suo nuovo libro che nessuno leggerà.
L’orto che dà il titolo al film è quel pezzo di terra che separa la sua casa con quello della vecchia vicina invalida devastata dal dolore della perdita della sua amata figlia Barbara scomparsa in guerra in Italia e forse vittima di un serial killer che uccide donne tagliando il loro organo genitale (ricorda qualcuno?).
Ma Barbara è anche l’infermiera americana di cui si è innamorato il protagonista, un colpo di fulmine nei confronti di una donna che ha visto solamente un minuto della sua vita. Ma è stata una folgorazione, la stessa che Dante ebbe nei confronti di Beatrice. E infatti tutto il film è un viaggio dentro l’inferno che ha dentro di sé alla ricerca della donna sognata e narrata.
Pupi Avati costruisce il suo Orto Americano (tra l’altro anche un suo libro del 2023) in tre parti ben definite sia nella struttura narrativa che filmica.
La parte americana è un noir alla Chandler con atmosfere Hitchcockiane che ricordano non poco Psycho e i suoi fratelli. Un bianco e nero che potenzia al massimo il mistero in cui siamo stati catapultati.
Il ritorno in Italia è un dramma giudiziario che vede al centro il processo al presunto serial killer Glauco e il rapporto che lega Filippo Scotti al coltissimo e mefistofelico fratello dell’imputato. Un Roberto De Francesco che sembra uscito da M di Fritz Lang.
La terza parte quella dove la follia esplode all’ennesima potenza e dove Pupi Avati si permette pure una citazione del finale della Casa dalle finestre che ridono con una corsa indemoniata del protagonista verso la caserma dei carabinieri.
Purtroppo, L’Orto Americano è quel classico film che dici: “Bella la regia, molto bravo il protagonista, fotografia eccezionale, musiche perfette ma…”.
La sensazione è che Pupi Avati abbia realizzato questo film per dimostrare che a 86 anni è ancora in grado di fare film cazzuti, con inquadrature che sembrano uscite dal cinema americano di una volta e in grado di gestire uno dei migliori talenti del nuovo cinema italiano. Tra l’altro senza usare il dialetto emiliano.
Purtroppo, la sceneggiatura vaga senza meta e ci disorienta non riuscendo a capire qual era il vero intento di questo Orto Americano e chi è veramente questo ragazzo senza una vera identità rubata e cancellata dalla violenza e dai traumi della seconda guerra mondiale e delle cure dei manicomi italiani.
E così in attesa di capire se Filippo Scotti è il bambino del Sesto Senso diventato uomo oppure il Leonardo Di Caprio confinato nella sua Shutter Island della Bassa Padana o addirittura uno scrittore alla Stephen King in continua lotta con la sua Metà Oscura usciamo dal cinema e cerchiamo di decifrare l’ultimo sguardo del protagonista verso il suo probabile futuro.
Voto 6
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