Espandi menu
cerca
Kafka a Teheran

Regia di Ali Asgari, Alireza Khatami vedi scheda film

Recensioni

L'autore

Peppe Comune

Peppe Comune

Iscritto dal 25 settembre 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 179
  • Post 42
  • Recensioni 1654
  • Playlist 55
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Kafka a Teheran

di Peppe Comune
8 stelle

Nove persone vengono riprese mentre a diverso modo sono chiamate a confrontarsi con le varie modalità cocui il regime teocratico iraniano fa sentire il suo peso su ogni aspetto della vita civile del paese. Un uomo ha problemi a causa del nome che vuole mettere al figlio appena nato. Per il suo primo giorno di scuola, una ragazzina vorrebbe indossare semplicemente jeans e maglietta, ma non può. A una ragazza viene contestato il fatto di essere stata vista dietro la moto con un ragazzo. Ad un’altra di guidare senza il copricapo. Durante un colloquio di lavoro, accettare una donna vengono poste diverse domande inopportune”. Un uomo che cerca lavoro deve dimostrare di conoscere il CoranoDei tatuaggi creano problemi ad un autista che deve rinnovare la patente. A un regista viene modificata la sceneggiatura. Una donna perde il suo cane, ma ha violato la legge. Nove spaccati di vita ordinaria, quindi, da cui si evincetanto il nonsense che caratterizza il rigido sistema di controllo del regime teocratico, quando il seme di una resistenza civile che inizia a germogliare contro le imposizioni del potere teocratico. 

 

scena

Kafka a Teheran (2023): scena

 

 prenduna macchina da presa e la si posizioni su un cavalletto all’altezza e alla distanza più congeniali all’idea di ripresa che si vuole fare. Si prendano poi delle persone comuniognuna delle quali presa a confrontarsi con delle normali incombenze quotidiane. Si mettano infine queste due cose insieme e si facciano dei piani fissi nel mentre ognuna delle persone indicate si trova a rapportarsi con la faccia anonima del potere costituito in relazione al fatto di cui sono chiamate a rispondere. Se tutto viene fatto dosando sapientemente serietà e ironia si può ricavare il ritratto di un paese dove il senso del tragico si serve del paradosso per animare la sua natura prevaricatrice 

Quello che si è ottenuto è Kafka a Teheran, la dimostrazione pratica di come il cinema possa vivere anche nella sola forza delle idee. È così che i registi iraniani Ali Asgari Alireza Khatami (per la prima volta insieme) rispondono presente a quel modo semplice (ma non semplificato) e lineare (ma non privo di complessità) di fare cinema che è tipico di tanto grande cinema iraniano. Certo, non si raggiungono le vette poetiche e (meta)cinematografiche di maestri come Mohsen Makhmalbaf, Abbas Kiarostami Jafar Panahi, capaci col solo pedinamento dello scorrere della vita di scandagliare l’anima complessa dell'Iran, mKafka a Teheran”, dando lo spazio il tempo adeguato a nove situazioni tipo (ognuna sempre annunciata da una dissolvenza in nero e preceduta dal nome del "prossimo" interessato), riesce con intelligenza a far emergere, tanto la faccia del potere teocratico che controlla ogni aspetto della vita cittadina, quanto la forma di una ribellione civile che in maniera discreta inizia a insorgere dalle viscere del paese. 

La semplicità della messinscena e una cosa chiaramente calcolata. Infatti, sia il modo di aderire spaccati di vita riprodotti così come effettivamente potrebbero essere, sia i piani fissi che si precludono ogni movimento di macchina precostituito, bastano a dar corpo ad alcuni aspetti di linguaggio insiti nello sviluppo narrativo del film e quindi ad offrire una fotografia molto più ampia della condizione sociopolitica del paese. 

In primo luogo, l'andirivieni di persone sempre diverse, per sesso, età, estrazione sociale e, soprattutto, situazione che vanno a discutere davanti all'autorità del momento, fa emergere il contrasto tra la propensione naturale a vivere con leggerezza tutto ciò che, nel suo divenire, offre la modernità e le regole imposte dalla tradizione religiosa. C’è un Iran che si vuole isolata dal mondo per preservarla dalla corruzione occidentale”, e c'è chi si sente non meno legato all'identità del suo paese per il solo fatto di voler vivere in libertà il piacere di fare le cose che sdesiderano.  

In secondo luogo, è assolutamente centrale nell'economia narrativa del film l'espediente registico del tenere sempre fuori campo la faccia dell'autorità”. Ciò che vediamo, sempre riprese a mezzo busto, sono le persone chiamate a confrontarsi con le presunte irregolarità della loro condotta di vita. Uomini e donne dai cui volti possiamo scorgere stupore, rabbia, paura, incredulità, sconcerto, sarcasmo, fragilità, coraggio, sfrontatezza. Sentimenti vari come varia è la vita e varie sono le situazioni che vi accadono. La voce che proviene dal fuoricampo, invece, esprime l'unicità di un sistema di regole che si vuole incorruttibile. Quella voce che non ha mai un volto riconoscibile è alternativamente quella di un impiegato dell’anagrafe, della commessa di un negozio di abbigliamento, di un funzionario del ministero della cultura, di un dirigente scolastico, di un impiegato dell’ufficio di collocamento e così via. E il tono di quella voce, non esprime tanto l’esercizio di un potere direttamente dispotico, ma la solerzia servile di chi intende senz'altro corrispondergli. È la voce di utili idioti che rispondono presente a quel minimo di autorità che possono far valere sugli altri. Ed è così che, attraverso l’uso del fuoricampo, un’assenza dall’inquadratura si rende simbolo dell’onnipresente di un potere che è vigile con fare censorio su ogni aspetto della vita sociale. 

In terzo luogo, il “Kafka” presente nel titolo si fa aggettivo per qualificare la condizione straniante che emerge ogni volta dall'incontro-scontro tra le persone e la voce fuori campo. Le normali azioni e più innocui comportamenti di persone comuni acquistano una veste alienante per il semplice fatto che vengono fatti uscire dai binari della logica comprensibilità di un evento. Ogni domanda e considerazione poste dall’autorità fuori campo assumono un tono inquisitorio per la semplice evidenza che sono orientate da un'interpretazione univoca dei fatti e seguono criteri di importanza da attribuire alle cose da fare e da non fare del tutto arbitrari. Un giro in moto, il nome da dare un figlio, un tatuaggio, un capo scoperto, sono azioni che insinuano sospetti infamanti per il solo fatto di dare l’impressione che sono state compiute con una disinvoltura non consentita. 

La regia di Ali Asgari e Alireza Khatami è stata abile a fare dei limiti imposti dai margini di un’inquadratura un universo kafkiano in cui si tende a normalizzare il fatto che un occhio indagatore vigili su ogni aspetto della vita delle persone quando non si ritiene lecito che le cose che si ha piacere di fare possano compiersi con normale leggerezza. 

Infine, l’inizio e la fine del film rappresentano un’ideale chiusura del cerchio per come giocano in maniera funzionale con le forme della città di Teheran. Il film si apre, infatti, con un’inquadratura fissa di tre minuti circa che ritrae in campo lungo lo skyline della capitale iraniana. Da come è ripresa potrebbe essere qualunque metropoli, così come identico a qualsiasi altra grande città del mondo è il vitalismo cittadino che la regia riesce a rendere attraverso i suoni che progressivamente si impossessano della città che si sveglia. I registi sembrano suggerirci che, non diversamente da altre città, Teheran è partecipe del divenire storico, non è possibile frenare all’infinito la voglia del suo popolo di vivere liberamente le proprie pulsioni interiori, non si può controllare per sempre una qualsiasi società quando il progresso della tecnica ha rotto da tempo gli argini di qualsiasi confine territoriale.  

Lo stesso skyline lo vediamo alla fine del film. Ma questa volta fa da sfondo ad un anziano signore ripreso a mezzo busto così come tutte le persone che lo hanno preceduto. Ma questo signore non parla perché nessuno gli fa domande, rimane muto come la voce fuori campo che, evidentemente, non ha nulla da contestargli. Come ci suggerirebbe l'ultimissima inquadratura, in quel reciproco silenzio ci sono forse le crepe di un regime teocratico che sta per implodere. Un finale che a mio avviso rappresenta una chiusura coerente con quanto si è visto : la messinscena dell’insorgere di una resistenza civile che sta iniziando a mettere in crisi le strutture del regime teocratico. Un fatto e una speranza insieme. 

Il tutto, compiuto con intelligenze e a bassa intensità, come spesso è successo con tanto grande cinema fatto in Iran. 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati