Regia di Michele Riondino vedi scheda film
E' un limbo tragico-fantozziano quello della palazzina Laf, dove gli impiegati dell'Ilva di Taranto venivano mandati letteralmente a non far nulla se non avessero accettato il demansionamento, descritto in quest'ottimo film di Michele Riondino con il giusto mix tra critica sociale e gusto del paradosso
Parlare di una realtà complessa come quella dell'Ilva di Taranto, dei suoi veleni e della sua lenta agonia tra cambi di proprietà, scioperi, blocchi produttivi e demansionamenti, poteva risultare facile e complicato al tempo stesso, come ogni volta che si vuole descrivere una realtà poliedrica pur inserendo qualche tocco di originalità. E va dato atto a Michele Riondino di essere pienamente riuscito a raccontare una storia a suo modo marginale (quella degli impiegati che, non accettando il demansionamento ad operaio pur di conservare il posto, negli anni Novanta venivano mandati nella palazzina Laf, un refugium peccatorum con tutte le fattezze di un esilio tragico-fantozziano, tra partite a ping-pong sulle scrivanie pur di ingannare il tempo e qualche intemperanza dettata dalla frustrazione dell'inutilità). Così anche l'operaio Caterino, mandato ad infiltrarsi tra di loro per carpirne eventuali congiure verso la proprietà, finirà suo malgrado per venire invischiato in questo clima e, solo marginalmente, per aprire gli occhi su una realtà che, oltre ai polmoni, ha finito per inquinare lo stesso spirito propositivio che ogni buon lavoratore dovrebbe avere. Un'ottima pellicola con il giusto mix tra critica sociale e gusto del paradosso (ricordando a tratti il caposaldo del genere, "La classe operaia va in paradiso") ma senza eccessi pop in grado di snaturarne più di tanto la forma.
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