Regia di George Miller vedi scheda film
“Furiosa: A Mad Max Saga” fa capolino nelle terre desolate a quasi dieci anni dal suo predecessore, presentandosi ai nastri di partenza con il serbatoio in riserva, (s)carico d’un carburante ormai troppo torbido e stantio per poter (ri)avviare fluidamente quei ferruginosi motori troppo a lungo sopiti, ingolfati nel vano tentativo di inseguire gli scintillanti riverberi di un passato - o di un futuro, a seconda dei punti di vista – giammai raggiungibile.
Pur nascendo dallo stesso embrione espressivo del suo precursore, l’ultimo film di George Miller guarda indietro a strutture e tematiche della saga originale, ma il tentativo d’ibridazione rimane complessivamente inconsistente; il mito del movimento è ancora centro di gravità fondamentale, ma la volontà di esplicitarlo viene a lungo posposta, a favore di una ripulita anima indagatrice dei caratteri e dei primordi ambientali, in uno scoraggiante avvio che trova un inaspettato estuario appena un momento prima che la sorgente sia del tutto prosciugata.
I primi due capitoli coprono un’ora di intensa frustrazione dagli ossimorici echi di direct-to-video ad alto budget, in cui la fisicità brutale degli effetti speciali pratici e la carnalità degli stunt che animavano “Mad Max: Fury Road” sono annichiliti da effetti visivi posticci e invadenti, colpevoli di sottrarre irrimediabilmente corpo alle coreografie e agli ambienti, fotografati con una nettezza priva della necessaria sfumatura, di quella (falsa) grana sporchevole che disegna corpi scomposti sotto il vigore delle vampate solari. In questo quadro, gli zoom, i campi lunghi e i close-up sembrano meri esercizi di mantenimento stilistico più che strumenti espressivi di ciò che viene portato in scena, per mezzo di un montaggio che annacqua i segmenti in mancanza di quell’azione che dovrebbe costituire il cardine del franchise.
L’anestetizzata tensione narrativa non riesce a trovare slancio nemmeno grazie ai personaggi, ai quali viene elargito un minutaggio sconsiderato in rapporto all’effettivo contributo fornito: in testa a questa nefasta classifica troviamo Chris Hemsworth, a rappresentare la presenza scenica più debole dell’intera saga, richiamando alla mente quell’atavico sentore da farsa kitsch pop che non si vedeva – senza nostalgia alcuna - da “Mad Max Beyond Thunderdome”.
Come pietra (quasi) tombale, la voce narrante che accompagna tutta la durata della pellicola, gravosa zavorra di un racconto che (non) si regge sull’eccesso di parole, nell’oblio dell’impatto dei silenzi che si avvicendano ai rumori quale primario linguaggio di espressione.
E’ necessario attendere il terzo capitolo per udire, in lontananza, la pulsazione elettrica – o meglio, meccanica – di un corpo filmico clinicamente ad un passo dal baratro, sottratto al decesso dalla salvifica entrata in scena di Anya Taylor-Joy e Tom Burke, portatori del carisma necessario ad accompagnare la sospirata azione, che riduce ai minimi termini i futili orpelli conferendo una compattezza ormai insperata ad ogni elemento cinematografico. Da questo punto in poi, incalza un’impetuosa sfrecciata verso il finale, pienamente soddisfacente nei modi e nei tempi, meritevole di riuscire ad abbandonare la dissimulazione in favore del gesto creativo, interrompendo l’apnea di quel talento in grado di elevare l’intrattenimento al piano del cinema d’autore.
In conclusione, non molto più di un effimero fuoco di paglia appiccato con largo indugio, che si mantiene comunque ardente quel tanto che basta a rischiarare il desolato orizzonte del genere di riferimento.
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