Regia di Ali Asgari vedi scheda film
I suoi genitori stanno per raggiungerla a Teheran, dove Fereshteh (Asgari, struggente) studia e lavora. Non sanno che la figlia ha una bambina di appena due mesi, avuta da un ragazzo che si è ben guardato dal riconoscerla. Con l'aiuto di un'amica preziosa (Shojaei), per Fereshteh comincia una corsa contro il tempo per trovare qualcuno disposto ad accudire la piccola per una notte. Ma tra porte chiuse, delazioni, promesse sbriciolate e minacce assortite, quella che si profila è un'odissea urbana fatta di coraggio e sotterfugi.
Il primo lungometraggio di Ali Asgari (arrivato sul circuito italiano dopo il successo di Kafka a Teheran) è un gioiellino costruito in unità di tempo e di luogo - come spesso capita al cinema iraniano, arte carbonara per eccellenza - e a budget ridottissimo. Ne esce un'opera vibrante, mai retorica, sul patriarcato di matrice religiosa, refrattaria a ogni manicheismo (ci sono uomini decenti e donne poco solidali), che accompagna lo spettatore per un'ora e mezza dentro una forma viscerale d'amore materno, fino a un finale da applausi. Asgari, con piglio neorealista e occhio da sismografo morale, affida ancora una volta a Sadaf Asgari il compito di incarnare l'assurdità di una società che si proclama devota ma si esercita soprattutto nella repressione. Il film è una parabola civile in punta di piedi, un J'accuse che non grida ma stringe il cuore, tra realismo e lieve, amara ironia. La bambina, sempre presente, è più simbolo che personaggio, ma basta e avanza per svergognare un sistema intero.
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