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American Beauty

Regia di Sam Mendes vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su American Beauty

di wundt
4 stelle

Il regista teatrale Sam Mendes (poi nome di punta del cinema americano, da "Era mio padre" a "Revolutionary Road", da "Skyfall" a "1917") esordisce con questo lungometraggio per cortese intercessione di Sua Maestà Steven Spielberg che lo "assolda" nella neonata Dreamworks e gli consegna, su un piatto d'argento, un copione che lo sceneggiatore Alan Ball scrisse nel 1997 a causa di una delusione professionale piuttosto seria. Coperti con facilità i costi di produzione, Spielberg fa da "padrino" al giovane Mendes (quest'ultimo attivo in teatro alla regia di "Cabaret") e, come sostengono alcuni ben informati, lo consiglia e lo assiste durante le riprese (pare che alcune sequenze siano opera dello stesso Spielberg) mentre la Dreamworks "regala" al giovane regista un cast d'eccezione: Kevin Spacey e Annette Bening, e le nuove star di Hollywood Thora Birch e Mina Suvari, senza contare un "vecchio" volpone del cinema americano: Chris Cooper. 

 

"American Beauty" è, di fatto, un'amara riflessione sulla crisi del modello americano familiare medio, con tutti gli stereotipi del caso e i colpi bassi (o alti, dipende) piazzati al punto giusto: il marito 42enne insoddisfatto del proprio lavoro e attratto da una giovane spregiudicata (spregiudicata a parole, visto che si rivelerà una verginella renitente) e in crisi con la moglie, agente immobiliare della più tipica middle class (con tanto di amante: il proprio capo) e una figlia che disprezza entrambi i genitori e vorrebbe scappare con il figlio (sbalestrato: è un videomaker che filma tutto il proprio vicinato) di un militare severissimo e fascista (con moglie "disturbata" al seguito) che si rivelerà un gay represso. Non manca niente: c'è pure la droga, spacciata dal figlio del suddetto militare. 

 

Ora, la crisi dell'istituzione familiare era già stata raccontata (meglio) da Marco Bellocchio nel memorabile "I pugni in tasca" (1965, altro esordio) ma lì si trattava di un discorso tipicamente italiano: tre anni prima del fatidico '68 il regista piacentino metteva alla berlina l'istituzione familiare borghese in versione cinica e (quasi) horror. Mendes qui è autore giovane, calato perfettamente negli USA di fine secolo, un attimo prima dell'11 settembre e a pochi anni dall'avvento di Internet e del mondo virtuale (che qui si limita ad una telecamera e a molte VHS). Non c'è nessun discorso borghese o politico (a parte l'aggancio al fanatismo fascista, ancorchè nazista, del militare), c'è "solo" una famiglia in crisi distrutta dall'abitudine, dalla voglia di far carriera e dalla consapevolezza di aver fallito tutti i propri "sogni" giovanili. Il protagonista (uno strepitoso Kevin Spacey) ritrova la propria giovinezza rincorrendo il sogno di una nuova Lolita, dell'allenamento sportivo e una manciata di canne gentilmente offerte dal figlio del nuovo vicino di casa, mentre la moglie (una lodevole Annette Bening) ritrova la sessualità persa andando a letto col "Re dell'Immobiliare", ovvero il tizio che l'aveva appena assunta (di fatto il proprio capo). Niente politica, pochissimi (o quasi nulli) agganci sociali: solo il ritratto di un fallimento esistenziale.

 

Ciò, però, svuota molto le possibilità dell'opera e rende alcuni passaggi davvero gratuiti (il bacio finale tra il militare [Chris Cooper] e Kevin Spacey) e alcune soluzioni narrative appaiono più di facciata che di sostanza (la masturbazione quotidiana mattutina; il famoso letto di rose in cui è avvolta, nei sogni del protagonista, la ragazzina di cui s'invaghisce [Thora Birch]), nonostante un buon ritmo e una regia più che dignitosa (ma non certo da Oscar, come invece accadde). Il classico film giusto al momento giusto, un trionfo di pubblico che ne decretò lo status di cult moderno (l'ultimo del Novecento) e che raccolse cifre da capogiro al boxoffice (in Italia fu il secondo film più visto dell'anno, superato solo da "Chiedimi se sono felice" con Aldo, Giovanni e Giacomo) e che diede alla Dreamworks la password del successo, con quei 5 Oscar portati a casa di cui forse tre di troppo (ineccepibili quelli alla miglior fotografia [del solito strepitoso Conrad L. Hall] e a Kevin Spacey, meno quelli alla sceneggiatura, alla regia e come miglior film dell'anno). 

 

Molti critici, soprattutto americani, sono andati in solluccheri e ne hanno scritto fin troppo bene sui propri giornali d'appartenenza; più fredda invece la stampa europea che lo ha definito, non senza giustificazione, "fintamente trasgressivo"; "sapientemente calibrato" e "kitsch". In effetti la trasgressione è spesso fine a sé stessa, alcuni momenti paiono esageratemente telefonati e il ritratto delle nuove generazioni è più fasullo del fasullo (a parole dediti ad ogni più spietata provocazione, a conti fatti più morigerati delle vecchie generazioni: sono più trasgressivi i genitori dei figli, a ben ragionare). Così come il letto di rose, vero simbolo del film, è di un kitsch imbarazzante (e la CGI non è nemmeno tra le migliori, è vero che era il 1999 ma "Jurassic Park" era del 1993!). 

 

Non vantiamoci troppo dei nostri doppiatori, qui il doppiaggio è fatto malino (Thora Birch, che nel film avrebbe 17 anni, parla chiaramente con la voce roca di una trentenne), ma tant'è, ormai se ne parla da decenni come di un capolavoro. No, a mio avviso no. Che poi si tratti di un film importante per quello che ha lasciato e quello che ha buttato in faccia ad un pubblico pronto ad essere preso (inaspettatamente) a sberle, è un altro discorso. Forse più ampio e meno adatto ad una recensione classica. 

 

 

 

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