Regia di Sergio Leone vedi scheda film
Può ancora esserci il Cinema dopo C’era una volta in America? Quel Cinema con la C maiuscola di cui Leone è stato senza dubbio uno dei più grandi interpreti ma, forse, al contempo, l’ultimo interprete. Almeno nel senso del cinema classico, del cinema capace di far sognare, di trascinare frotte di persone in sala e ammaliarle.
Tutto è già stato fatto, e lo stesso Leone con C’era una volta in America sembrerebbe volercelo ricordare, «tutti i film sono già stati fatti, si fanno dei remake». Un discorso che, volendo, si potrebbe estendere a l’arte intera. Leone sviluppa la riflessione «sul cinema stesso come processo onirico e immaginario, in cui convergono la violenza come distruzione delle immagini e la nostalgia come loro impossibile recupero nel mito edenico di un passato mai esistito altrove se non nell’immaginario cinematografico» [ 1 ].
Esiste ancora, il cinema? Il cinema, che non a caso oggi, perlomeno come esperienza collettiva in sala e come macchina “dei sogni”, par sempre più in crisi. E che alla crisi del cinema non corrisponda pure la constatazione della fase terminale di un’intera società, quella americana?
C’era una volta il West aveva già narrato – sempre muovendosi sul filo del Tempo, della Memoria e della Storia – della fine di un’epoca, con l’arrivo del treno e quindi della Modernità, la fine della Frontiera. Qui un terzo “c’era una volta” – dopo il “c’era una volta la rivoluzione” con Giù la testa –, c’era una volta l’America (il suo sistema che ha dominato il mondo ma mostra oramai sempre più le proprie crepe) e le sue manifestazioni culturali, quali appunto il cinema dei tempi d’oro, che quella stessa società l’ha trasfigurata per le platee del mondo, incluso il giovane Leone.
Il mito è infranto, quell’America non è mai esistita. L’atmosfera unica del film – diversa da qualunque altro che si muova, vagamente, sulle stesse linee – deriva anche dal fatto che quell’aria nostalgica che talora s’avverte è rivolta ad un mondo che, in effetti, non è mai esistito al di fuori del grande schermo.
C'era una volta in America (1984): Elizabeth McGovern
Leone è l’uomo della disillusione, nei riguardi dell’America come della rivoluzione. Per quanto rimanga una rappresentazione immaginifica – che non fa dell’aderenza al reale un mantra, anche perché forse è quasi tutto un sogno –, nella messinscena di C’era una volta in America si fanno strada i segni di quella disillusione.
Nel film, i soldi vincono su tutto. Il resto viene demolito, negato, violentato, stroncato, dall’amore all’amicizia. Noodles, un personaggio affatto positivo, è tuttavia l’archetipo del “perdente” (loser) secondo l’ideologia predominante: è del vecchio mondo, è quello che finisce per vivere una vita anonima, nel “buco del culo del mondo”, e non l’archetipo del “vincente” rampante come Max, che s’accoda all’andazzo di arraffare, arraffare, senza alcun tipo di scrupolo e senza limiti («ci fermeremo quando ne avremo 20, di milioni» dice sulla spiaggia, ma in realtà l’ingordigia è senza confini).
Non rimane nulla neppure, di nuovo, dell’amicizia e della supposta innocenza dell’infanzia (sintetizzata magistralmente da una delle più belle – e sommesse – scene del film: quella della charlotte russa che Patsy non può fare a meno di mangiare, rinunciando all’avventura con Peggy). Tutto immolato sull’altare del denaro.
C'era una volta in America (1984): Robert De Niro
Il fatto che verosimilmente per la gran parte si tratti solamente di una proiezione mentale del Noodles perso nei fumi dell’oppio, accresce in un certo qual modo il senso di angoscia e l’aria di decadenza e disfacimento: persino nei sogni non riesce a concepire che l’amicizia possa prevalere sulla follia portata in dote dall’avidità. Per non parlare dell’amore. Nell’ottica assolutistica del possesso, egli stesso finisce per sprofondare nell’abiezione di stuprare colei che afferma di aver sempre amato, nel momento in cui realizza che non vi sono spiragli di possibilità per un futuro insieme.
Il tradimento di Max, ribadiamo, non discolpa Noodles che per quanto a tratti combattuto rimane invischiato nel medesimo sistema, il quale non è affatto soltanto “criminale” ma elevato a “civiltà”: chi vince, vince, non importa poi molto come (e «i vincenti si riconoscono alla partenza»: ecco, l’apice dell’individualismo, il fatalismo definitivo, l’“etica” dell’America).
L’opus magnum di Leone si pone, in sintesi, come ambiziosa, smisurata, epica allegoria dell’America sotto forma di favola violenta. Raccontata con una maestria inarrivabile (tanto che pure i detrattori devono, seppur a denti stretti, concederlo, vedi il Mereghetti), per il tramite di una continua alternanza di analessi e prolessi, e poi di grandiose scene di massa, insistite dilatazioni del tempo e dello spazio come anche improvvise accelerazioni e sprazzi di violenza.
Moltissimi i momenti memorabili: come non citare quantomeno Noodles che spia Deborah intenta a provare dei passi di danza; l’improvviso ralenti – con la stupenda musica di Morricone ad accentuarne la portata – con la fuga del piccolo Dominic; la surreale ballata con gli scambi incrociati dei neonati; il prolungato rimescolamento del caffè nella tazzina da parte di Noodles; il faccia a faccia tra lui e Max anziani; e poi uno dei migliori finali della storia, con quel sorriso nella fumeria d’oppio a suggellare una delle più alte pagine della cinematografia mondiale.
Leone, per conseguire il risultato, s’avvale come da tradizione di contributi d’eccezione: il solito Morricone alla colonna sonora (commovente); il solito Delli Colli alla fotografia, semplicemente perfetta: satura, “pastosa”, con una predominante giallognola; il solito Baragli al montaggio (che deve esser stato un lavoro sfibrante…); il solito Simi alla scenografia (in grado di ricreare superbamente in studio gli ambienti, tanto che non si nota il passaggio dagli esterni agli interni, seppur spesso girati persino in continenti diversi). E poi una delle migliori interpretazioni di De Niro, che per quanto pacato e sotto le righe, riesce a comunicare un universo soltanto con uno sguardo.
C’era una volta in America racchiude un mondo e allo stesso tempo come lo demolisce; s’erge a monumento dell’arte filmica e al contempo però porta a interrogarsi circa il suo possibile avvenire. Definirlo imprescindibile par quasi un truismo, definirlo indimenticabile altrettanto. Ma proprio questo è. C’era una volta in America è il Cinema.
C'era una volta in America (1984): Robert De Niro
[ 1 ] M. Garofalo, «C’era una volta in America», in Il cinema è mito. Vita e film di Sergio Leone, Roma, minimum fax, 2020.
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