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Pearl

Regia di Elsa Amiel vedi scheda film

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La recensione su Pearl

di supadany
2 stelle

Venezia 75 – Giornate degli autori.

Fino a quando abbiamo in testa un risultato da agguantare, la concentrazione è massima, ma se avviene l’intromissione di un elemento non calcolato, non è detto che la funzione multitasking faccia la sua parte, consentendo al timone di mantenere la traiettoria preimpostata. Qualora la sopraggiunta novella sia legata a qualcosa di accantonato, ma non estirpabile nemmeno dopo alcuni anni, potrebbe addirittura presentarsi un bivio, con due strade completamente divergenti.

Da alcuni anni, Lea Pearl (Julia Föry) dedica anima e corpo al body building, sotto la guida meticolosa di Al (Peter Mullan), puntando alla vittoria di una prestigiosa competizione internazionale.

Proprio in un momento delicato, che la vede proferire il massimo sforzo e manifestare qualche incertezza non preventivata, Lea è costretta a confrontarsi con il suo ex compagno Ben (Arieh Worthalter) e Joseph, il figlio avuto con lui e di cui non ha mai voluto avere niente a che fare.

 

Julia Föry, Peter Mullan

Pearl (2018): Julia Föry, Peter Mullan

 

Portata all’estremo, anche la migliore delle abitudini provoca un disagio, trasformandosi in un’ossessione. Così, quei muscoli tirati a lucido, chimera irraggiungibile di tanti sportivi, diventano strumento di rivalsa e soggetti ai trattamenti peggiori, che non aiutano a migliorare lo stato d’animo, tra sacrifici annichilenti e una vittoria finale da conquistare ad ogni costo, tanto da annullare qualsiasi altro stimolo ipotizzabile, salute compresa.

A tutto c’è un limite e in Pearl il punto di un possibile/atteso tracollo, collima con un potenziale nuovo orizzonte, tutto da inquadrare e in seguito modulare. Peccato che Elsa Amiel non vada oltre a collegare i due puntini seminati sulla sua piantina (sceneggiatura), costruendo un dispositivo (raf)fermo sulla superficie di quei corpi luccicanti e mercificati messi in mostra, senza valorizzare un intuibile – e solo suggerito - fattore grottesco, che avrebbe potuto adornare una diffusa ed evidente infelicità.

Inoltre, la figura di Peter Mullan è stereotipata oltre il perdonabile e non basta il fatto che sia congeniale alle sue corde da uomo ruvido, mentre l’aggiunta di un bambino vivace, si porta appresso una ventata di tenerezza, un tono difficilmente conciliabile con il tenore di base.

Un assemblaggio faticoso, che denota la natura acerba dell’operazione, con l’aggravante di un intreccio stringato e sbrigativo, che mostra più risvolti rimanendo sul pelo dell’acqua, senza riuscire – e forse nemmeno provare – a far germogliare uno scavo psicologico che consenta di andare oltre la facciata.

Un minestrone insipido, strutturalmente paragonabile a un tv movie da seguire rigorosamente in un pomeriggio afoso, senza bisogno di disporre di una particolare attenzione.

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