La recensione su Absence

L’assenza, la mancanza di riferimenti, rende angosciante la vita, approssimata e senza particolari prospettive, dell’adolescente Serginho: senza un padre, con una madre alcolizzata che prepara torte di compleanno ma non ha la lucidità per farsi pagare con regolarità, impegnato a lavorare presso uno zio al banco di ortofrutta in un mercato di pomeriggio, e a scaricare casse di notte, il ragazzo perde via via la fiducia verso ogni suo seppur esile punto di riferimento: la ragazza orientale del banco vicino, da cui si sente attratto, la complicità con l’amico muto suo coetaneo, che si interrompe bruscamente per futili motivi; anche il circo, che rappresentava l’unico momento di svago utile a non pensare alla drammaticità di una vita che non concede sconti o scorciatoie, gestito da conoscenti e presso cui portava il fratellino entrando gratuitamente, un giorno scompare senza preavviso alcuno.

A Serginho non resta che gettarsi a capofitto nei confronti del giovane professore scapolo presso cui egli fa abitualmente le consegne di verdura: un uomo gentile e premuroso, che più volte si è prestato ad aiutare, ospitare il ragazzo, impartendogli lezioni gratuitamente.

Il rapporto ambiguo tra i due, controllato, ma tendente a cedere, quello da parte del professore, mentre decisamente più profittatorio e calcolato, forse anche a tratti malizioso, da parte del ragazzo, porterà a sfaldare il solo legame, un connubio, l'unico, che pareva funzionare veramente.

Absence, opera sottile, pessimistica e senza scampo del regista brasiliano Chico Teixeira, presentata a Berlino 2015 nella sezione Panorama, descrive con drammatica e schietta semplicità il senso di vuoto, il panico che si crea nella vita scombussolata e lanciata verso una deriva senza soluzione, in capo ad un ragazzo nel periodo più critico e fondamentale della propria maturazione.

La pellicola si prende il suo tempo nel raccontare sviluppi emotivi e rapporti interpersonali, allo stesso modo ed in perfetta coerenza di come fa la vita di tutti i giorni a regolare le relazioni tra persone che si conoscono, si sfiorano, entrano in contatto tra di loro: dunque senza necessità di forti svolte narrative, senza slanci improbabili, colpi di scena o svolte romanzate e poco attinenti alla realtà di una condizione di vita che diviene palpabile.

Afflitto dal peso estenuante di dover far fronte alle entrate di una famiglia in cui gli adulti non sono più in grado di garantire la fisiologica sopravvivenza, al ragazzo Serginho non resta che sfoderare una aggressività primitiva che probabilmente nemmeno pensava di possedere, e che lo rende belva disposta a tutto pur di assicurarsi il tornaconto.

Salvo poi tornare sui suoi passi e trovare con la fuga e il ritorno presso la famiglia di origine, una soluzione debole e per nulla rassicurante, propria di una vita che risulta sempre avara di prospettive e sempre predisposta alla sofferenza e al patimento.

Il protagonista Matheus Fagundes recita con la naturalezza disincantata di chi rimane se stesso anche interpretando un ruolo che non necessariamente gli corrisponde, e la cinepresa è invogliata a soffermarsi sui suoi grandi occhi scuri e liquidi, perdendosi nella purezza di uno sguardo triste che rispecchia la vita laddove le circostanze non permettono di potersi aggrappare ad alcun sostegno o certezza: nemmeno l’affetto, l’amore fraterno o filiale, quello gratuito e disinteressato che arricchisce più di qualunque altra regalia o fortuna piovuta dal cielo.