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Navajazo

Regia di Ricardo Silva vedi scheda film

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La recensione su Navajazo

di OGM
7 stelle

Coltellata. Il titolo di questo documentario va dritto al punto, anche se in senso figurato. A Tijuana, città messicana di frontiera, situata nel cuore della penisola californiana, la vita punge la carne come un colpo di pugnale. Tutto batte con lo stesso sordo ritmo vitale, dai cupi gorgheggi del cantautore di strada chiamato El Muerto, alle scazzottate, agli amplessi più o meno mercenari, ai morsi della droga. L’esistenza è una discarica in cui sopravvive il senso dell’amore, ma, soprattutto, impera l’incombenza della fine del mondo, di una rivoluzione di immense proporzioni, che farà esplodere quel cumulo di rifiuti organici e non, per inondare il globo con il suo mortifero sudiciume. In quel luogo vivacemente sporco si va avanti a furia di scorie, di fumo, di polvere, di contatti fisici fugaci, libidinosi o violenti, rabbiosi o indifferenti, che si sostituiscono ai normali rapporti umani. Il regista messicano esordiente Ricardo Silva ritrae quel mondo standone fuori; la sua macchina da presa vi entra da intrusa, come lo sguardo di un estraneo che non capisce, che non si immedesima, che è capace di provare disgusto di fronte al degrado, l’aggressività, l’aberrazione. Nessuna indulgenza, dunque. Ma ciò che non si perdona non necessariamente si deve condannare, ascrivendolo al regno dell’inferno. Ciò che accade è troppo miserevole per poter aspirare al rango del demoniaco. Quelli che sfilano, davanti all’obiettivo, sono soltanto squallidi episodi di bassa carnalità, di una istintualità privata della nobile forza del desiderio. I movimenti seguono l’eco di un battito cardiaco che suona a vuoto, ed il cui rimbombo è irrimediabilmente attutito dalle strade in terra battuta, da una desolazione accecata dal sole e cosparsa di baracche, dall’oblio indotto dagli stupefacenti. Il film compone i suoi frammenti di presente e di passato in un racconto escatologico montato in maniera selvaggia, volutamente senza capo né coda, smarrito nell’attesa dell’impossibile. È l’invocazione rap di un’assurda speranza di riscatto, forse adombrata da una velata minaccia di vendetta, che unisce vecchi e giovani nella stessa maledizione: dover continuare ad esserci, anche dove non c’è posto, dove lo spazio si contende ai rifiuti, ed il sentimento, nella realtà, è costretto a nascondersi, mentre, nella finzione, divampa con le faville melodiche delle telenovelas. Un padre sbandato, a  suo modo, vuole un bene dell’anima alla figlia, dalla quale non vorrebbe mai staccarsi. Un altro uomo colleziona montagne di giocattoli trovati nella spazzatura, mentre in una busta conserva le foto del corpo della moglie defunta. Questo succede nelle retrovie, lontano da dove i ragazzini sparano per uccidere, mentre si girano scene romantiche il cui protagonista è un playboy di nome Amador. Le immagini si susseguono in una girandola rozza, che potrebbe anche impazzire, perdere il filo, partire per la tangente, se non intervenisse, a trattenerla nella scia della logica, quella zavorra di consapevolezza che, fin dalle prime battute, reca in sé il duro peso della morte.

Dopo la vittoria a Locarno nella sezione Cineasti del presente, Navajazo si ripresenta in concorso, al Milano Film Festival, forte del linguaggio universale della barbarie che nasce spontaneamente dove null’altro può attecchire, compresa la voce di Dio. Il suo racconto è una ballata urlata senza grazia, a tratti persino grugnita, che mostra l’informe placidità di una deriva avvenuta a priori, senza niente da cui voler fuggire,  senza niente a cui poter ritornare.  

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