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L'accabadora

Regia di Enrico Pau vedi scheda film

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La recensione su L'accabadora

di Peppe Comune
7 stelle

Annetta (Donatella Finocchiaro) è una donna sola sempre vestita di nero che vive nella parte più interna della Sardegna. Nel bel mezzo della seconda guerra arriva a Cagliari per trovare la nipote Tecla (Sara Serraiocco) fuggita dal paese qualche anno prima. Trovatala, apprende con dispiacere che si guadagna da vivere prestando i propri servizi in una casa di tolleranza. Ma soprattutto scopre che la ragazza non ha smesso di detestarla, forse per qualcosa che riguarda il suo misterioso passato. Infatti Annetta ha ereditato dalla madre la pratica dell'accabadora, ovvero quella di portare “la buona morte” a chi è in fin di vita. La donna fa questa cosa meccanicamente, come un atto dovuto alle tradizioni della sua terra, come il frutto di un retaggio antico cui occorre solo rispondere presente. Il suo compito consiste nell’ arrivare al capezzale del moribondo, capovolgere il crocifisso e provocargli la morte per soffocamento, con un cuscino o con un fazzoletto. L'arrivo a Cagliari significa per Annetta conoscere nuove sensazioni, perché impara a vedere la vita da altri punti di vista e a conoscere da vicino la gratuità della morte prodotta dalla guerra. Sono soprattutto gli incontri che la donna fa a rivelarsi importanti. Quello con Alba (Carolina Crescentini), ad esempio, un artista dolce e sola nella cui villa Annette presta servizio e trova alloggio. E quella con Albert (Barry Ward), un giovane medico inglese che conosce nell’ospedale da campo dove viene ricoverata Tecla rimasta gravemente ferita durante un bombardamento. Incontri che fanno capire ad Annetta che la vita può essere altro e che c'è sempre il tempo per cambiare.

 

Donatella Finocchiaro

L'accabadora (2015): Donatella Finocchiaro

 

Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Michela Murgia, “L’accabadora” di Enrico Pau è un film che inserisce in un contesto sociale abitato da credenze arcaiche e sconvolto dalla guerra, la storia molto concreta di una donna. Una sorta di ghost story molto sui generis, sospesa tra mito e realtà, tra legende popolari che si impongono per il loro retaggio antico e vite schiacciate dalla storia che scorre. “L’accabadora” si inserisce nell’ormai folto numero di film provenienti dalla Sardegna, caratterizzati dalla volontà esplicita di indagare il territorio nei suoi aspetti più intimamente etnografici. La bellezza dell’isola emerge sempre prepotente, ma non è tanto il sole a prendersi la scena, quanto un misto di luci e ombre (ricavate dalla bella fotografia di Piers McGrail) che con il loro giocare di rimbalzo con la sagoma silenziosa della “dama in nero” conferiscono alla pellicola un alone di misterica fascinazione.

Questo film arriva fin dentro il ventre tragico della seconda guerra mondiale, in una terra in bilico tra una guerra sentita come una cosa troppo lontana per potergli appartenere e un isolazionismo ostinato prodotto dal dominio di leggi arcaiche dure a morire. In tal senso, Pau fa un buon lavoro di raccordo tra il mondo di fuori e le tradizioni di dentro, lasciando che l'eleganza delle immagini si sposino adeguatamente col taglio antropologico conferito alla narrazione, che la modernità in fieri caratterizzata dall'evoluzione del fare cinema si armonizzi pacificamente con la verosimiglianza del quadro storico di insieme che si intende portare su schermo.

La morte è la vera protagonista del film. Quella incarnata da Annetta, che pratica arcane tradizioni con la stessa meccanicità con cui si indossa un vestito. E quella prodotta dalla guerra, con il suo bagaglio di dolore e distruzione, che arriva a coinvolgere persone che neanche sanno perché la si sta combattendo. La prima è iscritta a pieno titolo in quei misteri insondabili che eternamente si inseriscono fra le cose del mondo, con la loro capacità di attrarre e di respingere allo stesso tempo, di provocare fascino in quanto partecipi di quelle cose che non si riescono a comprendere fino in fondo, o paura, per gli effetti indesiderati che possono provocare. La seconda è, invece, provocata dal vizio endemico di far pagare il prezzo più alto dei conflitti bellici alle persone socialmente più esposte. Sono di natura diversa, ma entrambe contribuiscono a disegnare un quadro sociale dove chi vi è dentro è ridotto ad essere solo una pedina di un gioco diretto da altri, una vittima designata che può opporre al mondo di fuori solo la fatalistica accettazione del proprio destino. Ecco, è questa sensazione di schiacciamento che emerge dal film, questo essere in balia di forze lontane, invisibili, che non si vedono ma che intanto continuano a incidere con prepotenza sulle vite di tutti.

Eppure, “L’accabadora” ci fa intravedere anche altro dal dolente ritratto d'ambiente e dall’accurata descrizione di una vita sofferta. Perché Pau non affoga il film nella trasposizione documentaristica di rituali antichi come il tempo, ma lo apre discretamente alla scoperta del mondo. Così, mentre ci conduce sempre più dentro una storia listata a lutto, prepara la strada ad un lento tentativo di emancipazione. Quella di Annetta, una donna colorata di nero che cerca soprattutto di liberarsi dai fantasmi della sua stessa vita. Annetta vorrebbe fuggire fin dove la consistenza dei suoi desideri possa diventare più forte dei richiami della sua terra d’origine. E Pau fa emergere questa volontà, insinuando in Annetta un’autonomia di pensiero del tutto inusitata in un tempo e in un luogo totalmente dominati dalla legge non scritta delle antiche tradizioni. La fa essere una donna che ad un tratto pretende di fare chiarezza innanzitutto con la sua vita, di trovare nella discontinuità col suo passato di donna che porta la “buona morte” la linfa necessaria per ritornare a vivere.

Una bella e intensa Donatella Finocchiaro fa da mattatrice di questo bel film che vive della bellezza delle immagini e del fascino conturbante della storia che racconta.

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