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Red Krokodil

Regia di Domiziano Cristopharo vedi scheda film

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La recensione su Red Krokodil

di OGM
7 stelle

Ci sei. Ci sei. Ci sei. Anche se tu non vuoi.

La chiamano così. Con il nickname di quello che potrebbe sembrare il personaggio di un cartone. Un pericoloso rettile reso inoffensivo da un surreale, creativo accostamento cromatico. A pensarla con la mente di un adulto, la suggestione visiva è da allucinazione: squamosa e sanguinolenta, abrasiva ed infuocata. Questa droga, uscita dai farmaci da banco e cucinata in casa sui fornelli, è un micidiale cocktail che dell’uomo si mangia tutto, a cominciare dalla pelle, che si dissolve in scaglie spugnose dall’aspetto purpureo. Di questo mostro si può vivere, da soli, fuori dalla realtà, nell’infinito abbraccio di un dolore senza nome, che basta a se stesso, visto che il suo anonimo niente può riempire ogni vuoto, senza tante complicazioni. Visto dall’esterno, questo riservato abisso è arte applicata all’agonia. È un capolavoro di sofferenza invisibile, sprofondata nelle viscere di una ex vita, troppo pesante per emergere alla luce del sole, per alzarsi dal letto, per spaventarsi a un rumore. Un regista la filma, con curiosa deferenza. Se ne resta fermo, in disparte, a guardare, senza fiatare, senza mai girare l’occhio,  come se tutto fosse scontatamente indifferente, concentrato su un punto qualsiasi di un universo inesistente, dove le cose che accadono sono solo l’illusione ottica di un divenire. Un giovane danza il ballo della sua consunzione. La musica è il rimbombo di un ricordo d’infanzia che è decaduto in un minaccioso presagio dell’apocalisse. Inutile affacciarsi alla finestra, rimuovere l’immondizia, cercare cibo fresco, provare a smettere di iniettarsi veleno.  Il fuori è un alone rimasto attaccato ad un vetro smerigliato. È un bagliore di esplosione atomica. Il dentro è sopravvivenza pura, assurda, oltre ogni possibilità di resistenza, oltre ogni pensabile orrore, ogni sostenibile marciume, ogni tollerabile schifo. C’è tanta forza in quel degrado in cui le mani della disperazione e la mente dell’incubo riescono ancora a scavare piste percorribili a cavallo di una inattesa emozione. Mentre si muore i sensi fioriscono, nelle segrete fodere dell’anima che si contorce e si scopre ancora morbida di piacere, pronta a ricevere conforto e amore. Mostra i denti, stringe i denti, ma è una finta.  Il suo cuore ha la carezzevole cedevolezza di una pulsazione emorragica. Il rosso si fa strada attraverso il corpo, sboccia dai suoi punti deboli, apre fori circolari come baci che non si sono spenti. Traccia le stigmate dell’essere che non può svanire, né trasformarsi, ma solo cambiare la metafora della sua inascoltata voglia di urlare, dalla normalità dei giorni tutti uguali, alla follia dei giorni tutti uguali. Lui c’è, e continua a non riuscire a farsi sentire. La sua voce non può infrangere il silenzio, nemmeno quello dell’isolamento più assoluto, in cui si era fiduciosamente rifugiato. In mancanza di suono, decide allora di farsi colore. Di farsi anche materia, che si lascia toccare, però emana cattivo odore, si nutre di sostanze tossiche, si confonde con la spazzatura.  Domiziano Cristopharo inquadra il monologo di una creatura che denuncia il suo nulla lasciando che questo divampi in tante forme diverse: tutte mutamente laceranti, come un tumultuoso squarcio nell’intimo, che ti riempie di lividi e tace. 

 

scena

Red Krokodil (2012): scena

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