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Medeas

Regia di Andrea Pallaoro vedi scheda film

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La recensione su Medeas

di OGM
6 stelle

Medeas. Un tentativo di creare la forma maschile di Medea, il nome della figura mitologica che uccise i propri figli per vendetta nei confronti del marito traditore. il film americano dell’italiano Andrea Pallaoro è la storia di un ordinario e tragico ménage familiare, ambientato in una zona rurale degli Stati Uniti. Christina, la madre, è sordomuta. Ma questo non è il principale motivo per il quale, intorno a lei, v’è tanto silenzio. La donna è sposata con Ennis, un allevatore di bovini dal quale ha avuto cinque bambini: in una casa isolata in mezzo all’arida campagna abitano sette persone che parlano poco, si muovono con circospezione, e non fanno quasi mai rumore. L’atmosfera è perennemente assorta, come nell’attesa che accada qualcosa di decisivo, che apra i cuori e sciolga le lingue. Invece i giorni si susseguono nell’indecisione, tra gesti e parole appena abbozzati, quasi sempre furtivi, frutti di un’intimità imbarazzata che si vergogna delle proprie debolezze. I momenti di gioco, di lavoro, di amore, di convivialità soffrono dell’impossibilità di lasciarsi andare senza doversi guardare le spalle: una morbosa degenerazione del pudore che l’obiettivo del regista sottolinea ed asseconda perseguendo l’estetica della (parziale) invisibilità,  con le inquadrature che tagliano i soggetti, sottraendo alla vista quello che dovrebbe essere il centro dell’azione, o la parte essenziale dell’immagine. Gli affetti mutilati danno luogo ad un paesaggio umano incompleto, nel quale il motivo dominante è il vuoto di emozioni, accompagnato da una finzione di spensieratezza. Il resto, tutto ciò che si riesce a strappare all’ammasso banale della messinscena, è una marginalità in cui si comprimono passioni imperfette e pensieri incompiuti, pronti a deflagrare, però troppo timorosi di uscire allo scoperto. Il desiderio di una vita migliore e la stessa idea della felicità sono entità astratte e indefinite, sospese tra i fantasmi del passato (la danza della pioggia per porre fine alla siccità) e le nuove invenzioni tecnologiche (un grosso televisore da piazzare nel soggiorno). Intanto si sta svogliatamente insieme, senza avere certezze riguardo al futuro, né sapere in quale direzione andare. Questo film ama girare attorno a questo stallo esistenziale, come un discorso che si metta mille volte in marcia, per poi subito azionare il freno a mano. E così il racconto rimane bloccato sulla mancanza di affermazione, che riguarda tanto il giudizio morale, quanto la descrizione psicologica dei personaggi e l’analisi critica della loro situazione. Di fronte a questa anonima reticenza narrativa, anche il contesto si tira in disparte, limitandosi a fornire il tiepido colore dello sfondo. Il quadro è un dipinto incantevolmente sfumato, significativamente cosparso di chiazze di tela spoglia; ma il testo è ridotto a frammenti informi e indecifrabili, che vorremmo tanto lasciassero trapelare qualcosa di sé. Fosse anche solo un piccolo lamento, in grado di rendere riconoscibile la tonalità del loro dolore.

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