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Prisoners

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su Prisoners

di logos
9 stelle

Nelle opere di Villeneuve assistiamo alla demolizione del mito americano, perché i personaggi che lo dovrebbero rappresentare sono tutti esistenzialmente imprigionati dalle loro ossessioni morali, immorali, religiose e irreligiose.

 

Due bambine, appartenenti a due buone famiglie, l’una bianca e l’altra nera, vengono rapite nel giorno del Ringraziamento. Ciascuna famiglia reagisce al dolore in maniera differente. Mentre il padre bianco, Keller, fiero dei suoi principi di sopravvivenza, intraprende una caccia all’uomo, sfidando l’inerzia dell’apparato poliziesco, e torturando a sua volta l’indiziato (con scene che mi hanno riportato al grande film nostrano Un borghese piccolo piccolo), l’altro padre, se in un primo momento cede alla complicità, finisce per dire la verità alla propria moglie, la quale, dopo aver visto lo strazio del torturato, prende le distanze, dichiarando al marito che non occorre fermare la tortura ma neanche compromettersi: bisogna astenersi, lavarsene le mani, far proseguire la vendetta ma con la coscienza esentata .

 

Abbiamo dunque due famiglie e due bambine scomparse, Anna ed Eliza.  Due padri, Keller e Franklin e le rispettive mogli: Grace e Nancy. La prima si rinchiude nel suo dolore imbottendosi di psicofarmaci, sfogando la sua rabbia contro il marito Keller, che si è sempre mostrato forte e protettivo (Usa) mentre ora sembra essere impotente. E in effetti con la scusa che se ne va in giro fino a tarda notte a cercare la loro bambina con la polizia, passa il tempo a torturare il sospettato tralasciando la famiglia (un’altra allusione agli Usa e alla sua politica estera e interna). Gli altri coniungi Franklin e Nancy (i neri) sembrano vivere con più decoro lo strazio che comunque li rode, e soprattutto cercano di farsi coraggio a vicenda, anche se la loro coscienza non è poi così trasparente, visto il loro assenso implicito alla tortura (allusione al perbenismo americano).  In tutti questi profili ben tratteggiati nell’opera, che proprio per questo posso dire polifonica, si presenta anche la figura del detective Loki, che dovrà affrontare un labirintico viatico per cercare di risolvere il caso, che si farà sempre più inquietante, dovendo confrontarsi con figure che celano vissuti tortuosi e sommersi.

 

Con un cast fenomenale che dà tutto se stesso, tutto è girato a meraviglia, in un’atmosfera cupa e tesa, in cui incombe l’ira di Dio e l’incessante richiesta di perdono, mentre la richiesta del perdono si trasforma in un disperato timore di sprofondare in un baratro senza ritorno. Ben detto a mio avviso quando la critica mette in evidenza che quest’opera è una metafora del mito americano delegittimato, non più in grado di essere coerente con le sue premesse di liberta, felicità e amore. Tutto frana, viene seppellito, quel che resta lo può percepire soltanto la pazienza, che con disincanto, con l’occhio del detective, sa dipanare la matassa aggrovigliata del bene e del male, termini che nell’opera di Villeneuve non devono più distinguersi pena l’ipocrisia, come confermerà in maniera ancora più drammatica in Sicario.

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