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Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles

Regia di Chantal Akerman vedi scheda film

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La recensione su Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles

di Azrael
10 stelle

Sulla scia della recente pubblicazione della celeberrima classifica di Sight&Sound, ho approfittato di un'iniziativa della Cineteca di Bologna che ha trasmesso il film in sala. Trattasi della seconda visione personale, che ha confermato un giudizio altamente positivo. 

Grande classico, seppur sconosciuto al grande pubblico, Jean Dielman è un film che stravolge completamente il linguaggio cinematografico, vero spartiacque e pietra miliare per un certo tipo di cinema che si sarebbe sviluppato a venire. Trattasi, allo stesso tempo, di un manifesto di denuncia e amara riflessione sulla società moderna e sul ruolo della donna. 

 

L'importanza del film è da rintracciare in una rivoluzione nella cognizione e messa in scena del tempo filmico. Ciò che viene mostrato non sono semplicemente porzioni di tempo isolato funzionali ad un racconto, intorno alle quali si costruisce l'impianto tradizionale (sceneggiatura, regia e montaggio), tutto questo viene superato, o meglio, portato ad un estremo espressivo. Akerman vuole mettere in scena semplicemente il tempo in quanto tale, per come esso appare effettivamente. Il tempo per come scorre nella realtà. Ma non solo, Akerman estremizza questa ricerca, focalizzando il proprio interesse in quei frammenti di tempo apparentemente più insignificanti, i momenti morti che spesso sfuggono al radar della memoria. Le faccende quotidiane, l'ozio, piccole azioni rituali insignificanti. Eppure i momenti più intimi, quando l'individuo è solo con se stesso, quando l'azione del vivere si da nella sua forma più autentica. 

Questa rivoluzione della messa in scena del tempo, che viene mostrato nel suo scorrere in tempo reale, rimanda a concetti già ricercati dalla Nouvelle vague, qui però portati in un certo senso al loro ultimo compimento. Raramente, prima di allora, era stata messa in scena un'estetica del vuoto così come avviene in questo film di Chantal Akerman. 

 

Una casalinga, madre di un goffo ragazzo nel pieno dell'adolescenza, il marito morto e quindi assente. Questo il soggetto: un emblema della solitudine, succube del proprio ruolo sociale, il quale però (per almeno metà film) viene svolto in maniera esemplare. Il film ci accompagna nella monotona ciclicità casalinga di questa persona, nel corso di tre giorni. Questo dovrebbe essere l'incipit, ed è quello che effettivamente viene messo in scena. I singoli frammenti di vita sono rigorosamente in tempo reale, tempo scandito solo da brevi stacchi di montaggio, con la funzione di cesura temporale tra le ore della giornata. La camera rimane immobile e inquadra perlopiù interni: il bagno, la camera da letto, la cucina. C'è un iter preciso nei luoghi dove la cinepresa viene posta, luoghi che rimangono sempre invariati. Si ritorna più volte alla cucina, la preparazione del cibo, oppure la sala (la cena del figlio che si ripete nello stesso modo), di nuovo la camera da letto. Si tratta delle normalissime attività di una casalinga, alternate a qualche monotono esterno: il panificio, la banca, il calzolaio. Una piazza, l'ingresso di casa. Il soggetto si muove in spazi fissi e immobili. Frammenti di tempo reale che scorre. 

Attività meccaniche: fare da mangiare, preparare un caffè, pulire vecchi souvenir, accendere la stufa, scene che si spingono fino a decine di minuti di durata. 

A volte, qualche eccezione. Anzi, il film si apre con un'eccezione: servizietti sessuali a uomini adulti. Inizialmente si tratta di scenette dal gusto quasi commediale, in linea con la compostezza maniacale e stereotipica di Jeanne. Lei rappresenta il ruolo che ricopre e incarna uno specifico modello. Tutto è come deve essere, tutto è lineare. Ma qui si trova il fulcro del film, questa apparente tranquillità è solo quello che il film vuole far credere. 

 

I movimenti di macchina, come detto, sono assenti. Inquadrature che ritornano sempre sugli stessi punti e spazi. Luoghi sempre uguali, quasi stranianti sul lungo andare, come si volesse mimare ciò che Jeanne vede ed esperisce. L'atmosfera, inizialmente neutra, diviene pian piano sempre più plumbea e opprimente (senza, ovviamente, nessun tipo di cambiamento scenografico). Viene sempre più svelata la realtà dietro una maschera di perbenismo, questa quotidianità ordinata e composta diviene progressivamente sempre più labile. 

La Akerman sottopone gli spettatori ad un tour de force solo in apparenza innocuo. Le faccende svolte da Jeanne sono della massima banalità, fondate sulla ripetizione, il ciclo. La ciclicità dell'azione è un aspetto fondamentale nel film e non da sottovalutare, perché assume un carattere alienato e alienante e svela una vena fortemente drammatica. Lo spettatore si ritrova in una condizione di straniamento, la percezione del pubblico viene appositamente affaticata. La durata del film si fa sentire tutta, senza un secondo di tregua. Se spesso si giudica un film sulla base della scorrevolezza, del rapporto fra tempo effettivo e tempo percepito, in Jeanne Dielman è esattamente l'opposto. Akerman vuole, letteralmente, consumare ogni secondo. Il film, per come è pensato, necessita di scorrere alla massima lentezza (che è quella, poi, del tempo reale). 

Anti-spettacolo: viene rivoltato e messo in discussione il senso dell'intrattenimento nel cinema. La realtà intesa come scorrere del tempo ci appare nella sua forma più autentica e ci troviamo forzati ad assistervi. 

Qui Akerman gioca un po' sul filo, operazione che potrebbe anche sembrare volutamente pretenziosa. Ma questo senso di affaticamento è voluto dal gioco perverso e lucido della Akerman, mostrando la sua efficacia nel finale. 

 

Una delle principali forze del film è il modo in cui viene costruito il "climax". Il crescendo di tensione rimane abilmente nascosto, passa in sordina, ma allo stesso tempo si consuma lentamente e inesorabilmente. Il tono quasi grottesco della parte iniziale lascia intravedere sprazzi di stanchezza, di stress, di noia. Brevi scene di introspezione, sguardi fissi nel vuoto. Vuoto che in realtà è sostanza prima di una quotidianità alienata. 

Prima solo leggeri, quasi impercettibili, cambiamenti nell'aspetto didascalico e modesto di Jeanne, lasciano intravedere un dramma più profondo. I capelli leggermente spettinati, qualche sbuffo di troppo, momenti introspettivi che si fanno più lunghi. L'aspetto composto di Jeanne inizia a vacillare, si rivela sempre più come una maschera. Non ci è dato sapere che cosa pensa nei momenti più riflessivi, si può solo cercare di estrapolarlo dalle poche informazioni di background che il film fornisce. 

Interessante è il ruolo del sonno: esso non ci viene mostrato, non c'è una singola scena sul sonno. Scandisce temporalmente i tre giorni, eppure non si perde tempo a mostrare Jeanne che dorme. Il sonno viene tagliato, in quanto interruzione della realtà e quindi momento di tregua. Una pausa temporanea dallo scorrere sempre uguale, alla realtà opprimente che fa strada all'angoscia. 

 

Nel corso del film l'agire quotidiano si ingrossa anche di piccoli patetismi, scene grottesche, che colgono il non-senso e la futilità del fare le cose, in primo luogo tramite i brevi dialoghi con le poche persone che incrociano Jeanne. Dialoghi che restano in superficie, riguardano aspetti insignificanti delle faccende domestiche, come fossero macchie sul vuoto. Ogni parola è solo una macchia inutile sul silenzio e sul nulla, come diceva Samuel Beckett. 

Gli scambi di parole sono allora solo uno strumento per il reciproco accertamento del proprio esserci, ma finisce li. Piccole finestre sul vuoto, mucchi di parole che non fanno altro che tradurre il silenzio. 

 

Akerman sembra voler suggerire come il vuoto, laddove si consuma l'angoscia nello sterile agire quotidiano, sia in realtà il fulcro stesso dell'esistenza. E allora quello che inzialmente sembra essere un compendio quasi documetaristico delle azioni quotidiane nella vita di una donna, diventa un vero e proprio dramma dell'esistere.

Queste attività così monotone non sono altro che il rifugio necessario per sfuggire alla noia e al nulla, appesantite dalla gravosità di un ruolo sociale imposto. Il soggetto è quindi funzionale al sotto-testo politico e sociale del film, di matrice indubbiamente femminista. La condizione della donna nella società consumista e patriarcale, alle porte del secolo. 

Un soggetto accomunabile, seppur differente, potrebbe essere Dillinger è morto del nostrano Ferreri. Ci si trova da quelle parti, o ancora più vicino se ci aggiungiamo anche Antonioni, nella sua ricerca del vuoto e dei silenzi. 

 

Infine il finale, amaro, ma in fondo perfettamente logico. La tensione, che quasi in segreto si era accumulata per più di tre ore, finalmente si scarica. Lo spettatore quasi non se ne accorge, o se ne accorge tardi. 

Una scena allo specchio, un aspro colpo di tosse che segnala un intruso. Taglio, una figura maschile pesante, spiacevole, qualche pelo di troppo e folti baffi, opprime Jeanne con il proprio peso insopportabile. La tragedia si consuma: delle forbici, un grido soffocato. Una scena di assassinio veloce, ma di limpida crudezza. 

La scena finale, oltre dieci minuti di sospiri liberatori. La notte e i rumori della strada all'esterno. Le macchie di sangue sui vestiti, eppure un sorriso, una liberazione amara. Finale che cristallizza il messaggio anche politico della Akerman. 

 

Film che sicuramente divide, difficile maturare un giudizio neutro. Non è infatti facile seguire questo perseverare sulle singole azioni, specie le più banali, questa cinepresa bassa e immobile, le cui immagini sono interrotte solo da rari stacchi di montaggio. Inutile rimarcare come i vari Wong, Tarr, Tsai, Haneke, i fratelli Dardenne, Lav Diaz abbiano poi percorso una strada già tracciata dalla Akerman e debbano moltissimo a questo film in particolare. 

A prescindere dal giudizio personale, si può dire che Jeanne Dielman abbia posto le basi di un linguaggio a venire, e sia quindi uno dei più importanti tasselli dell'ultimo mezzo secolo cinematografico. 

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