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Amen

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Amen

di EightAndHalf
8 stelle

L'opus n°18 di Kim Ki-duk è un racconto di disarmante e enigmatica semplicità. Nonostante il punto di vista, la regia mossissima e digitale e lo stile amatoriale sembrino incorniciare un piccolo e mero esperimento intellettuale, il film, stranamente sconosciuto ai più e poco visto, propone mediante simboli, allegorie e metafore messaggi di rara profondità, che sbucano con eleganza da una realtà indifferente seppur viva. Prima di Pietà, uno sprazzo di vitalità, né disperato né appagante, volutamente irrisolto, ricco di sfumature che stanno nei movimenti della mdp, nelle preregrinazioni della protagonista per tre città europee (Parigi, Venezia, Avignone), nella sacralità che si mischia alle osservazioni più prosaiche. 
Il fatto che Kim Ki-duk sia il protagonista maschile, misterioso violentatore che indossa sempre una maschera anti-gas, come a tenersi a distanza e a non voler respirare una realtà fin troppo normale in cui si sta perdendo lo spiritualismo e in cui la carnalità incombe, può indicare l'intento chiaramente meta-cinematografico della pellicola, che è un definitivo ritorno al primo Kim, quello di Real Fiction (straordinariamente simile e pieno di assonanze). Il cinema è punto di vista, ma è diventato sporco, gli occhi della maschera si sono macchiati, tutto è più rude, la dimensione religiosa è lontana, è il cinema a salvarci, a prezzo della purezza e della verginità. O forse il cinema vuole, attraverso la violenza, raccontarci la fine dello spirito e del sentimento? Tra cenni alla cristianità (moltissime le scene dentro le chiese gotiche europee, e ovvi i riferimenti della gravidanza della protagonista) e visioni in prima persona, con uno sguardo che talvolta si avvicina spacciato e talvolta sbircia da dietro un albero, un'opera matura di grande rassegnazione, triste conoscenza dell'oggi e del vuoto. Una ricerca che si ritorce su sé stessa, un vortice di pensieri che si appiattiscono nella ripetizione (e nell'eccessiva ridondanza, nonostante la breve durata) di azioni, gesti, voci, fino a una catarsi anti-spettacolare, in cui oltre l'obbiettivo delle mani, le cui dita formano un parallelogramma, l'immagine si sfuma, perde consistenza. La visione della realtà è distorta, a favore della constatazione di un reale disturbante: maternità violenta, confronto vergognoso dei sessi (l'uomo è particolarmente denigrato), soffocata leggerezza. Come se tra piccole immagini poetiche, le rose, le chiese, le strade, la natura che sfugge fuori dai finestrini del treno, la gente, stesse fuggendo il sentimento del 2° Kim, quello di Ferro 3, e si stesse preparando la strada verso Pietà. E lo sguardo diventerà razionale, in un ciclo di punti di vista che è il ciclo della "civilizzazione dello sguardo" (i cicli storici di Giambattista Vico, istinto e stato brado, sentimento e compassione, ragione, fino alla fine e a un nuovo inizio). Piangiamo il sogno finito, come la protagonista vicino alle tombe in una delle prime scene; accogliamo l'incomunicabilità. Il silenzio non è più metafisica, è solo silenzio.

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