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4 Days in May

Regia di Achim von Borries vedi scheda film

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La recensione su 4 Days in May

di OGM
8 stelle

Una storia incredibile di fine guerra. I quattro giorni di maggio sono quelli che separano l’arrivo delle truppe sovietiche in un’isola tedesca del Mar Baltico dall’annuncio della resa e dalla conseguente proclamazione dell’armistizio. Gli eventi, realmente accaduti, sono raccontati dalla prospettiva di Peter, un orfano che vive sotto la tutela della zia, una baronessa di origine russa, nell’orfanotrofio femminile di cui quest’ultima è la direttrice. Quel bambino, che è l’unico maschio in un’enorme casa abitata da sole donne e bambine, si sente già uomo, e si indispettisce ogniqualvolta qualcuno gli faccia notare il contrario. In effetti è solo un ragazzino, di bassa statura e dal corpo ancora gracile, e non può davvero farsi carico dei compiti che spettano agli adulti. Come, ad esempio, imbracciare un fucile e combattere. Peter ci prova, indossando la divisa ed impadronendosi dell’arma di un soldato ucciso; spara contro il nemico, però non viene preso sul serio. Eppure è convinto che, per lui, ci siano tante possibilità di rendersi utile: parla correntemente due lingue, e dunque potrebbe fare da tramite fra gli sparuti residui di eserciti che, in quello sperduto lembo di terra,   si fronteggiano da lontano, senza passare all’azione, aspettando l’ordine di cessazione delle ostilità.  Peter crede che il conflitto sia ancora in corso, e che sia importante continuare a lottare: in fondo, non è possibile dargli torto, se gli uomini dell’Armata Rossa, giungendo sul posto, fanno strage dei militari tedeschi schierati a difesa dei profughi in procinto di partire. E sono sempre loro, i vincitori non ancora in pace, che  requisiscono l’istituto, rapiscono una giovane inserviente, ed assumono, in generale, il comportamento tipico degli invasori.  Durante quello strano assedio, messo in atto da un gruppo di soli otto uomini, dotati di un cannone scassato e privi di munizioni, il piccolo protagonista non smetterà mai di darsi da fare, inventandosi istante dopo istante sempre nuovi modi di difendere la sua gente. La sua immaginazione e la sua voglia di giocare sono messe al servizio di una causa che, su scala mondiale, sembra ormai inesorabilmente persa, ma in quel ristretto angolo di mondo è invece una questione ancora aperta, una faccenda estremamente delicata in cui si stanno decidendo, sul filo del rasoio, le sorti di singoli individui, divisi tra deboli e potenti, tra  innocenti e colpevoli, tra vittime e carnefici. Nonostante la sua età, non gli mancano le idee e può inoltre contare su una notevole presenza di spirito.  Intelligenza ed iniziativa sono i suoi punti di forza, le risorse da persona matura che gli consentono di intervenire attivamente nella crisi in atto.  A furia di guardarsi intorno, fiutando pericoli ed occasioni, arriverà a concepire un piano, basato su un accordo segreto, per salvare tutti gli appartenenti alla sua grande famiglia adottiva.  Il protagonista di questo film sarebbe  facilmente accostabile ad un personaggio deamicisiano, se non fosse per quella lucidità narrativa che riporta ogni cosa alle sue reali proporzioni, evitando di allargare troppo l’obiettivo sulla dimensione dell’infanzia, e mostrando come i pensieri e i gesti di un bambino siano soltanto un innocuo e romantico frullo d’ali in mezzo ad un universo dominato da un’inarrestabile violenza.  L’argomento centrale del discorso è forse proprio quell’attrito che Peter incontra ad ogni passo,  e sembra prodotto da un’immensa bolla di ottusità, nella quale l’umanità rimane rinchiusa, condizionata nelle scelte ed incapace di vedere la via semplice che potrebbe risolvere le situazioni più intricate. Tutto, intorno a lui, si complica inspiegabilmente, creando odio e spargimenti di sangue che non corrispondono ad alcuna strategia dettata dalla ragione. Il gigantesco imbroglio finirà per strangolare i suoi artefici, che vi resteranno impigliati a causa della loro cecità. Per una volta, il coraggio serve a poco: è un valore ingannevole, che onora il sacrificio in quanto tale dimenticando di considerarne, caso per caso, il concreto impatto sulla realtà.  Se non si fosse lasciato incantare dalla retorica di regime, il figlio del capitano Kalmykow non sarebbe caduto in battaglia, e sarebbe invece diventato un medico. Il miraggio dell’eroismo uccide. E la viltà si unisce volentieri al massacro. 

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