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Niente da dichiarare?

Regia di Dany Boon vedi scheda film

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La recensione su Niente da dichiarare?

di M Valdemar
4 stelle

Questi douaniers non sono certo quelli di Rimbaud, che “fendono l’azzurra frontiera a colpi d’ascia” e “coi mastini al guinzaglio di notte se ne vanno a fare giochi orribili!”.
I nostri giocano, sì, ma a divertir(si) e a farsi la “guerra” da buoni vicini che s’odiano, tra sterili scaramucce lessical-storiche e battibecchi da commari; tutt’al più, tra una barzelletta e l’altra, tra una sonnecchiata e una richiesta d’indulgenza al prete che favorisca l’oltrefrontiera celestiale, riescono a sventare un traffico internazionale di stupefacenti che vede, nell’abbattimento dei posti di dogana, nuove e succulente possibilità.
E bravo Dany Boon, novello Re Mida: tramuta in oro tutta la celluloide che tocca. E lo spettatore è “toccato“.
In Niente da dichiarare c‘è tutto quello che si può aspettare: massicce dosi di umorismo (non proprio fine né originalissimo, vedasi la trovata degli ovuli di droga infilati su per il deretano del corriere) che, così come in Giù al Nord, trova la sua principale ragion d’essere nel contrasto nascente tra caratteri opposti (lì francesi, sud vs. nord; qui francesi contro belgi; il prossimo, francesi contro alieni?); il lato sentimentale che mai può mancare, e mai può mancare di regalare qualche (stravisto) “brivido” (l’agente “mangialumache” s’innamora della sorella dell’arcinemico belga); la (blanda) morale di fondo, tra riflessioni sulle barriere, psicologiche ancor prima che fisiche, che l’uomo si costruisce e sulla fratellanza tra popoli, non venendo meno pure piccole osservazioni sul mondo che cambia (l’avvento dei computer; gli effetti dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht - il film è ambientato a cavallo tra il 1992 e il 1993). Naturalmente tale morale, meramente riempitiva, permette all’autore (sempre Boon) di autoassolversi dal “peccato” di realizzare un film solamente comico. Infatti latita quella sana cattiveria che, ove appena accennata, svanisce presto in un una nuvola di buonismo o finisce sepolta sotto le sabbie della burla. Il regista, non pago, c’infila anche qualche ambizione “poetica” (l’amabile bambino che chiede al padre a quale paese appartengano le stelle in cielo) e così s’assicura la benevolenza del pubblico.
Però, peccato, perché con il ritratto del doganiere belga (Benoît Poelvoorde), irriducibile razzista francofobo (ma quanti detestano i francesi?) fa centro: stronzo, senza freni, nevrotico, armato di tutto lo stupidario del caso ed esageratamente ossessionato. Grandioso quando, nel bel mezzo della notte accanto alla moglie, si sveglia di soprassalto come da un terrificante incubo, sbraitando: <<Un francese!>> 
<<E’ solo un rumore!>> 
<<Un rumore di francese!>>.
Una figura splendidamente patetica e divertente (lontana dai penosi picchi di certa realtà leghistoide) a cui Boon, opportunamente lascia briglia sciolta e a cui riserva i momenti (e le battute) migliori. A tratti si ride sguaiatamente. Un errore lasciarlo scadere in una prevedibilissima “evoluzione” bonaria, che si cerca di mascherare nella scena finale.
Il resto delle gags, come l’aspetto romantico, è alquanto banale e ampiamente sfruttato, e unito a qualche incongruenza di troppo, specie nella sottotrama poliziesca (puerile e inutile), non permette al film di elevarsi dalla media.
Aspettiamo con (s)fiducia l’italico rifacimento.

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