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Kill Me Please

Regia di Olias Barco vedi scheda film

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La recensione su Kill Me Please

di OGM
8 stelle

Se il suicidio è un diritto, allora deve essere regolamentato. Se, invece, è una piena espressione della libertà individuale, non dovrebbe essere soggetto ai vincoli della morale, né potrebbe essere un’azione “assistita”. La clinica diretta dal dottor Kruger si fonda sulla prima ipotesi, che inquadra l’assassinio di se stessi in una cornice normativa ed organizzativa ben definita, e perfino istituzionalizzata. Conseguenza logica di questa visione è che il suicidio non è da considerare come un gesto estemporaneo ed estremo, dettato dalla disperazione, bensì come un rito liberatorio, che fa parte delle grandi scelte esistenziali, e deve quindi essere attentamente meditato e scrupolosamente preparato. In effetti, quasi nessuno dei pazienti del dottor Kruger sembra davvero animato dal desiderio di morire: quest’ultimo, infatti, per sua natura, può essere facilmente e rapidamente esaudito, oltre ad essere del tutto privo di postumi per il soggetto,  e dunque non ci sarebbe alcun motivo di aspettare prima di metterlo in pratica. La volontà di non vivere è, invece, ben più complicata da realizzare, perché passa attraverso un processo di spegnimento pianificato, una progressiva decantazione, che, con un perversa forma di continuità, fa digradare il viscerale attaccamento alle proprie cose nella voluttà di abbandonarle per sempre.  Questo è il delicato percorso che richiede il ricovero in una struttura tranquilla ed isolata, ed un valido sostegno da parte di un personale sanitario specializzato. La “medicalizzazione” del suicidio presentata in questo film, non vuole affatto – si badi bene – proporre l’eutanasia come una possibile opzione terapeutica. È, al contrario, la provocatoria rappresentazione di un paradosso, i cui protagonisti sono persone vive e vegete che continuano imperterrite a cercare il piacere istintuale (nel cibo, nel sesso), a temere il disagio fisico (del freddo, della fame) e a provare paura, mentre proclamano, a gran voce, il loro urgente bisogno di farla finita. La messa in scena dell’addio è, per ognuno di loro, l’eccentrico atto finale di un’esistenza che ha deciso da tempo, per vari motivi, di imboccare vie stravaganti e farsi beffe di tutto.  È un privilegio per pochi, che si paga in denaro (la retta di iscrizione) e si deve conquistare mettendosi in competizione con gli altri (vedi i “provini” di selezione dei partecipanti al programma). È il gesto ostentatamente contro natura (o illegale, o politicamente scorretto) che diventa il solito lusso riservato a ricchi ed intellettuali, a coloro, cioè, che hanno i mezzi per convincere il mondo delle loro ragioni, o, in alternativa, possono permettersi di infischiarsene del giudizio altrui.  Il suicidio non può essere dunque, un diritto fondamentale, come lo sono quelle attività umane di cui la vita si nutre (mangiare, bere, amare, pensare, procreare) e di fronte alle quali siamo tutti uguali. Andare deliberatamente incontro alla morte è, piuttosto, una follia individuale, che ognuno vive in modo diverso, e che, in particolare, per la raffinata élite del male di vivere, necessita, ovviamente, di un pubblico e di una servitù, a cui rivolgere il cortese invito/perentorio ordine Kill Me Please.

 

Il cinico tripudio di morte presentato in forma spesso monologica, e a volte televisiva, è un chiaro riferimento a Il cameraman e l'assassino di Rémy Belvaux, opera fondatrice della nouvelle vague belga. Di questo film Olias Barco ripropone il bianco e nero nitidissimo, ma freddo e privo di decoro estetico, oltre a prendere momentaneamente in prestito l'attore principale, quel Benoît Poelvoorde che da spietato serial killer che era si trasforma qui in un cineasta depresso, che compare nella sequenza iniziale, ed ha fretta di uscire di scena.

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