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The Rum Diary. Cronache di una passione

Regia di Bruce Robinson vedi scheda film

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La recensione su The Rum Diary. Cronache di una passione

di OGM
8 stelle

La classica avventura vintage. Che ha l’odore del liquore invecchiato, ma sa soprattutto di inchiostro di penna stilografica e di taccuino Moleskine dalle pagine ingiallite. Il film restituisce un sogno americano fermentato negli effluvi palustri di un colonialismo tardivo, rivestito di un esotismo patinato che nasconde la pagina sporca del business turistico. Il Paul Kemp/Johnny Depp, trapiantato da New York a San Juan, è il fascinoso antieroe della carta stampata, lo scrittore fallito che si illude, il cronista d’assalto che si impantana in una giungla piena di rapaci e sabbie mobili. Il suo safari a caccia della verità si trasforma in un melanconico circo a sfondo etnico, in cui i colori locali sono cupi e selvaggi come i bronzei corpi delle ballerine del carnevale, e come i rifiuti delle discariche dove i bambini del posto vanno annaspando in cerca di cibo. Bronzo lucido e ferro rugginoso sono le tonalità del contrasto tra la realtà degli affaristi yankees e quella della popolazione indigena: un universo spaccato in due, ebbro di una visionarietà megalomane per gli uni, di una rabbia selvaggia per gli altri. Kemp, come lui stesso dichiara, appartiene a coloro che stanno nel mezzo, senza partito ed equidistanti dagli estremi, e quindi sono in balìa di un’arte di arrangiarsi che, nel Puerto Rico del 1960, è praticabile solo con molta fantasia. L’alcol, onnipresente nelle forme e concentrazioni più inverosimili, è l’ubriacatura dell’assurdo, di un mondo in cui tutto appare fuori posto, e tutto viene continuamente predato, dal terreno di un’isola caraibica disabitata, ai sedili anteriori di una vecchia  Cinquecento con i vetri rotti. L’ingiustizia e la sfortuna danno vita ad una burla amara, messa in scena in un grande spettacolo da baraccone, con tanto di mangiatori di fuoco, maghi ermafroditi ed altri esseri umani dalle mostruose appendici corporee. Non manca nemmeno la bella sirena, l’avvenente e bionda Chenault, che ammalia gli artisti, i potenti ed anche i lavoratori neri delle piantagioni. L’affollato surrealismo di questa favola da murales nasce dove la modernità dell’industria alberghiera e dell’editoria pubblicitaria si interseca con le tradizioni ancestrali della santería e dei combattimenti tra galli: una micidiale mistura, che da melting pot si trasforma in pot pourri, nel senso letterale di “pentola putrida”. La bellezza d’importazione è un kitsch sfrenato, quella autoctona un’opaca suggestione tropicale, ed entrambe sanno diventare, in un nonnulla, sinistre maschere della voracità. L’immagine sfigurata di quell’angolo del globo è un paesaggio di Henri Rousseau infestato dagli spettri di un James Ensor, una veduta di Edward Hopper che si lascia trascinare dalla romantica follia di un  Marc Chagall. In The Rum Diary si incontrano drammaticamente due opposti e crudeli splendori: quello della civiltà occidentale della e quello della natura incontaminata. Due presunti paradisi che, messi a confronto e costretti a specchiarsi l’uno nell’altro, scoprono, senza via di ritorno, le rispettive anime infernali.
In questo film Bruce Robinson realizza una mirabile rappresentazione narrativa e cinematografica del cinismo, che riesce ad inserire, con variegata originalità, in tutte le pieghe del racconto. Da rimproverargli v’è, forse, soltanto l’accartocciamento retorico e agiografico del finale.

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