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Angel. La vita, il romanzo

Regia di François Ozon vedi scheda film

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La recensione su Angel. La vita, il romanzo

di ROTOTOM
8 stelle

Romanticume di inizi ‘900. Pacchianerie di paccottiglia scambiate per preziosi. IL “bello” che si fa portatore sano di felicità, contenitore di vacua sostanza. L’estetica del nulla che assurge a modello di vita. Ozon dipinge il ritratto di Angel Deverell esattamente come lei scrive, immedesimandosi nel suo stile, omaggiandola come musa di un inizio secolo in cui il bisogno di frivolezza covava nel petto della gente, quiete prima della tempesta della guerra. Angel scrive e sogna, sogna e scrive nel buio umido della bottega della madre, incastrata tra i vicoli marci della provincia inglese in cui gli abitanti nascono come funghi e come muffa ci muoiono. Il sogno di uscire da quel mondo povero e cupo spinge la provinciale e ignorante ragazzina a scrivere con grande pathos di cose che non può conoscere se non per idealizzazione, così quando parla di povero non intende di “ideali” o di “futuro”, intende povero di soldi. Così come “cupo” non ha nessuna attinenza con lo stato d’animo ma proprio con i colori scuri dei luoghi che abita. La straordinaria mancanza di una qualsiasi forma di sensibilità o profondità per le cose della vita se non per quelle immediatamente percepibili e la voglia di una rivalsa sociale le rendono abbastanza facile sostituire quei semplici lemmi con altri più consoni alla personale visione del sé proiettato in un universo di fantasia barocco e melenso. Lei è scrittrice di romanzacci rosa, quello delle copertine tutte uguali su sfondi esotici, coglie in una prosa semplice e immediata tutta la voglia di frivolezza del tempo assurgendo in breve termine a una grande ricchezza sulla quale fonda la propria visione di vita. La casa in cui si rinchiude in dorato esilio è una casa delle bambole i cui cancelli tengono lontano gli orrori del mondo, gli arredi, gli arazzi gli eccessi di palazzo sono connotati dal “bello” senza alcuno stile o valore, rivalsa sociale e psicologica al “brutto” senza speranza dell’adolescenza. Benché Angel sia un personaggio fortemente negativo, senza grazia che non sia la formalità affettata, senza affetto se non mosso da interesse, Ozon la omaggia e la contempla nella sua semplice brutalità morale rendendola comunque credibile e tutto sommato simpatica. L’esibizione di belle cose di pessimo gusto, lo stucchevole sentimentalismo, il grottesco bisogno di apparire a tutti i costi in forma fiabesca, tutto questo è il ritratto di una personalità borderline, una Vivian Leigh vaudeville volitiva e bugiarda in grado non solo di realizzare i propri sogni, ma di piegare il sogno al proprio ideale di realtà. Tutto è posticcio nella vita di Angel, i gesti enfatici senza passione, la passione tradotta in formale esibizione di retorica, l’amore che si nutre delle parole dai feuilleton da lei stessa partoriti. Baci sofferti che sconfiggono la pioggia battente liberando arcobaleni. Il viaggio di nozze con l’amato marito sugli sfondi volutamente finti dei paesaggi esotici dei suoi libri. Ozon si porge così allo splendido nulla che circonda la protagonista, una bravissima Romola Garai che interpreta magnificamente ogni eccesso della sua Angel, con tutto l’artefatto possibile mischiando egli stesso la realtà alla finzione, veleggiando su un registro leggero, descrittivo così come l’eroina dei libri vive superficialmente la sua vita. Il registro cambia seccamente nella seconda parte del film, quando la realtà reclama il proprio dominio sul sogno. Gli stucchi del sentimentalismo decadente tardo romantico che avevano resistito anche alla guerra, chiusa fuori dai cancelli della Paradise House, enclave di felicità pacchiana ficcata come un neo rosa nel buio del mondo, cedono di fronte alla morte del marito, uomo di malaffare avvelenato di vita, pittore di paesaggi cupi e tristi, che imprigionato nella gabbia dorata si impicca spezzandone la fiaba. Angel si trasforma da Biancaneve in Strega Cattiva, la casa di felicità si accascia in un grottesco catafalco di decadente memoria, lugubre e mefitico in cui sgorga in tutta la sua stordente solitudine tutto l’amore che la sua assistente di sempre, sorella del marito le ha donato con ammirevole devozione senza pretendere mai nulla. E senza che Angel refrattaria a qualsiasi empatia umana o sensibilità di sorta se ne accorga minimamente. L’Io nascosto di Angel affiora in superficie aderendo ad un Sé artefatto, perfettamente somigliante ad un quadro, un ritratto di lei fatto dal marito, sconvolto dalle ombre e dai segni che ora le solcano il viso, una Dorian Gray al femminile la cui fattezza ha mantenuto per sè le brutture della vita. Un melodramma di sorprendente delicatezza e ispirazione in cui la bella forma aderisce perfettamente alla “sostanza del bello” da mettere in scena. Ozon costruisce il film strutturandolo prima sul parallelismo sogno-amore, sulla cui coincidenza la protagonista costruisce la propria vita, poi lo de-struttura nella dicotomia sogno-morte, smantellandone da prima i simboli nel loro primario significato (il pavone da simbolo di bellezza a immagine della fine nel quadro del marito; gli arredi barocchi e vermigli della camera da letto idealizzazione del talamo d’amore che diventano una vermiglia camera funebre) per poi ammantare la sgomenta eroina dell’incubo che la travolge, la bellezza che sfiorisce, i tempi che cambiano e la superano, la prima domanda su sé stessa e la propria vita, proprio nel momento della morte che le dona in extremis una patina di umanità. Il tardo ottocento così non è semplicemente descritto ma grazie al punto di vista deformato che adotta il regista, quello della protagonista, si ha il privilegio di vivere dal di dentro l’epoca a cavallo dei due secoli in cui la parentesi letteraria di Angela Deverell, popolare e innocua sognatrice, rappresenta l’ultimo riverbero di innocenza e leggera frivolezza, prima di scomparire sepolta nel buio del xx secolo.


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