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Sicko

Regia di Michael Moore vedi scheda film

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La recensione su Sicko

di lussemburgo
8 stelle

SICKO! di Michael Moore

Non ha avuto torto Quentin Tarantino, presidente della Giuria a Cannes 2004, a concedere al precedente film di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, la Palma d’Oro. Con questa mossa, il regista americano, al di là della contestazione all’amministrazione Bush implicita nella premiazione o del valore estetico dell’opera, ha consacrato il collega nell’Olimpo del cinema d’autore internazionale, dissipando così automaticamente qualsiasi dubbio sull’appartenenza dei suoi film al generico contenitore del documento filmato. Perché il cinema di Michael Moore è una perfetta espressione della personalità del regista, abilmente celato dietro le spoglie di un’apparenza documentaristica.
Dal reportage Moore ricava tecnica e stile, esilità della troupe, macchina in spalla, fotografia non curata, andamento pseudo-giornalistico dell’intervista, come pure l’ingombrante presenza in campo del regista che aliena qualsiasi presupposto di finzione. Moore, così facendo, si è costruito un’iconografia perfettamente riconoscibile (stazza non indifferente, cappellino da baseball e occhiali spessi, maglietta e giubbotto), incarnazione militante del cittadino medio (di Flint, Michigan, come ama ripetere), eppure informato, curioso e beffardo.
Molto si è dibattuto sulla faziosità di Moore, sul taglio grossolano e univoco imposto al materiale trattato. In effetti, un tale atteggiamento risulterebbe criticabile in un serio reportage, ma rimane lecito all’interno di una pellicola d’autore, in un cinema che è, come sempre dovrebbe essere, l’espressione in forma di film di pensieri e opinioni personali, della propria visione del mondo, dove soggettività e autonomia di pensiero non possono venir sindacate. Moore però, pur non tralasciando l’informazione necessaria, esprime un’opinione, opinabile e fallace forse, ma indubbiamente personale. Ed è proprio la costante di Moore stesso, trasformato in personaggio riconoscibile con la macchina da presa al seguito, a rendere i suoi film delle narrazioni in prima persona. Perché il suo cinema è pura satira, ossia l’utilizzo dello sberleffo e dell’ironia come pungenti armi accusatorie nei confronti di ciò che lo indispone, e cela, sotto l’apparente facezia e la bonarietà del narratore, una precisa visione del mondo. Uno stile personale che si maschera da documentario e che, pertanto, favorisce le critiche di manipolazione e parzialità di chi al genere dell’inchiesta filmata fa riferimento, ma che invece si rifà appieno alla tradizione satirica della messa in berlina dei potenti e della evidenziazione delle ingiustizie, assumendo il tratto e l’aspetto dell’uomo medio che dice l’ovvio, ma che si basa su una messe di informazioni attendibile e verificabile. Al pari, in Italia, della tanto osteggiata satira politica, che si esprime da piazze cittadine e telematiche mentre è bandita da teleschermi e giornali con l’incriminazione di non far ridere e di rinunciare al sorriso per il ghigno, il cinema di Moore altro non è che la rivelazione, in forma beffarda e esasperata, di una verità personale, resa a tutti leggibile tramite il comico. Se l’indignazione sceglie la causticità come espressione di non sottomissione, la comicità che ne deriva non è semplice veicolo di alleggerimento bensì il mezzo di una maggiore incisività. Il sorriso, diventato sardonico, è più agghiacciante e indelebile, un j’accuse ben visibile, comprensibilmente espresso da un preciso personaggio.
I film di Moore sono pura esasperazione, deformazione efficace della realtà che si esprime attraverso il capovolgimento e il paradosso (in Sicko, tutto lo spezzone cubano), porgendo un unico punto di vista ingrandito dall’espressionismo stilistico. Ogni autore satirico parla ad un pubblico specifico, al quale manda messaggi decodificabili, con cui spartisce un retroterra di riferimenti immediatamente evidenti e, nel contrasto tra leggerezza di tono e serietà del soggetto, aiuta l’emergere di una consapevolezza inedita, impone un maggior grado di informazione che l’ironia contrabbanda per intrattenimento.
E Moore altro non è che un intrattenitore istrionico il quale, come in una sua vecchia serie televisiva (The Awful Truth, 1999-2000) trasforma affollate convention in sedute di contro-informazione, che assume il ruolo dell’americano provinciale medio a cui concede la consapevolezza della propria condizione. Divertente e, pertanto, efficace, Sicko (come gli altri film di Moore) è una barzelletta amara, una vignetta satirica, un aneddoto caustico sullo stato dell’Unione, sullo smarrimento di quel sogno americano di uguaglianza e giustizia che si è rarefatto negli anni ma che il governo e i poteri forti usano solo come vaga invocazione apotropaica, per saldare e scaldare gli animi e tenere a bada gli spiriti maligni della delusione e del disagio.
Il cinema di Moore è una rilettura a puntate di questo sogno infranto; sfruttando il vasto e naturale set degli Stati Uniti usa la forma apparentemente innocua dell’assenza di finzione per evidenziare la verità del messaggio, e l’ironia per dare più efficacia all’indignazione. È un cinema utopico e beffardo, espressionistico e cinico che, rinunciando totalmente alla mediazione intellettualistica di una narrazione a tutto tondo (in cui Moore si è cimentato, con esiti disastrosi: Canadian Bacon, 1995), fa affiorare sullo sfondo la visione ipotetica di un mondo almeno un po’ migliore.

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