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Il tempo degli avvoltoi

Regia di Nando Cicero vedi scheda film

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La recensione su Il tempo degli avvoltoi

di scapigliato
8 stelle

Il film di Cicero parte davvero male con un pressapochismo insistito sia nei dialoghi, nella recitazione sia nella composizione finale del filmico. É un po’ ridicola tutta la prima parte con il giovane Kitosch che salta da un letto all’altro nella fazenda del padrone Don Jaime, ovvero Eduardo Fajardo. Anche se tutta questa prima sequenza ci offre un affondo sadomaso inusuale ed insolito per un western, con una scena in cui frustato, frustatore e spettatore godono tutti e tre all’unisono, è solo più avanti, poco dopo l’entrata in scena di Tracy il Nero, che il film s’impenna clamorosamente e ci tiene incollati allo schermo fino alla fine. Dalla scena della sepoltura, non solo il film prende la piega giusta, ma vediamo per la prima volta sotto una luce misteriosa ed infernale il personaggio, bellissimo!, di Frank Wolff, ovvero il Nero di cui prima. É un epilettico isterico, malattia che come la nevrosi lungo l’800 e nei primi decenni del ‘900 veniva ricollegata a qualcosa di connaturatamente demoniaco. Poi la medicina ha illuminato il popolo bue, ma all’epoca certe malattie erano considerate infernali. Ed è così che il regista gira quella sepoltura, inquadrando il Nero dal basso mentre si staglia sul cielo scuro della notte, lui, illuminato dai fuochi del calesse mortuario incendiato. Drappi neri, cavalli a lutto, pistolero di nerovestito, fiamme infernali, un cadavere: tutti segni iconografici, di cifra fumettistica, quindi autorevolissima, che ci introducono al vero film, quello che davvero terrà il banco durante tutto lo svolgersi della vicenda. Ma non solo, tutte le scene a venire portano con sè i caratteri del cinema nero italiano, quasi anche dei piccoli inserti sadomaso, dei novelli torture-porn che gettano una luce di maledizione sull’intera storia. Infatti, anche se a vestire i panni del protagonista è un fascinoso George Hilton, questo Kitosch, pseudo-successore del precedente sempre interpretato da Hilton in “Kitosch - L’Uomo che Veniva dal Nord”, è un uomo che davanti ai delitti orribili del suo compagno di ventura non muove un dito. Avvertiamo che la cosa lo infastidisce, e che vorrebbe fermalo, ma continua invece a tenerselo vicino, ad auitarlo e proteggerlo. Forse perchè malato? Il Nero di Wolff dopotutto è un serial-killer, figura bizzarra nel contesto western, ma tale è davanti ai fatti. Una turba di matrice sessuale lo ha condannato alla violenza. Una violenza di cui lo stesso Nero sente il peso, e il di lui corpo rifiuta tali atti con le convulsioni epilettiche. Ed è proprio questa carratteristica di Hilton a dare ancora più pepe alla pellicola. Proprio perchè non c’è un ruolo nettamente positivo, pulito, corretto. Hilton è un dongiovanni dei più immorali, senza vergogna, come credo sia giusto che sia, in più non ostacola le prodezze horror del suo amico, anzi ne approfitta per farsi il suo bel gruzzolino di dollari.
Sarà il finale a mettere fine all’ambiguità totale del film. Chiosa finale dell’ultima grande sequenza ambientata alla missione francescana, il celebre Cortijo del Fraile, il duello tra i due amicinemici, che poi duello non è, mette la parola fine agli orrori e ai ludibri di Tracy il Nero, senza però riportare tutto all’ordine iniziale (anche perchè all’inizio di ordine non ce n’è). Anzi, Cicero rincara la dose ridipingendo il laido padrone interpretato da Fajardo in un uomo buono e propenso al perdono, e il Kitosch di George Hilton lo fa andare via a cavallo, solitario, come tutti gli antieroi, suggerendo che in duello il Nero l’abbia davvero colpito, forse anche a morte, cosa che fino a quel momento non sembrava.

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