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Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus

Regia di Steven Shainberg vedi scheda film

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La recensione su Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus

di Bebert
6 stelle

“Questo è un film su Diane Arbus, ma non è una biografia storica. […] Questo che state per vedere è un tributo a Diane; un film che inventa personaggi e situazioni che sono al di là della realtà, per esprimere quella che avrebbe potuto essere l’esperienza intima della Arbus durante il suo straordinario percorso”. Siamo avvertiti dal principio, di Diane Arbus c’è solo il nome che attira considerazione e il regista, Steven Shainberg ne associa un altro: Nicole Kidman, una delle più insigni attrici di Hollywood. Accattivante anche il titolo: “FUR”, pelliccia o pelo. Scopriremo che d’ambedue le cose, narra il film. Per chi scrive cominciano alcune contrarietà: Diane, nel 1958, appare una timida e frustrata casalinga-assistente del marito fotografo; figlia di ricchi pellicciai, vive in un castigato appartamento e s’interroga talvolta sulla propria condizione di donna insoddisfatta. Non regge il confronto con un pubblico di poche persone, impappinandosi nel descrivere la propria funzione di collaboratrice e poi si slaccia la camicia alla finestra, presa da un curioso raptus. Diane Arbus, quella vera, nel ’58 già fotografava col marito per riviste di moda e conosceva colleghe illustri, ma c’è l’avvertimento… e si tira avanti con la visione del film. Nel palazzo si trasferisce uno strano individuo incappucciato e Diane, stuzzicata dalla misteriosa presenza e da altre figure che frequentano lo stabile, s’attiva per saperne di più.

Casualmente, nell’operazione di sgorgare le tubature di casa (che spesso càpita ad una casalinga insoddisfatta con sembianze da fotomodella), la protagonista trova una gran massa di capelli ed una chiave. Inizia un thriller, e la cinepresa s’apposta in cunicoli, spioncini, serrature e citofoni; ogni sequenza non dura più di venti secondi cercando di creare nel pubblico la tensione che prova la nostra eroina. Certo, la Kidman è bravissima ma un po’ soffocata da questo montaggio di smozzichi. Diane trova il coraggio di scoprire lentamente chi è il nuovo inquilino e per farlo s’improvvisa finalmente fotografa, armata di una Rollei (non la Kodak della Arbus…) e s’addentra, previo appuntamento, nell’appartamento di Lionel, l’inquilino del piano superiore (interpretato da Robert Downey Jr.), per svelare che è un mondo intero. L’uomo si manifesta poco a poco e si concede in cambio di concessioni: lui è affetto da ipertricosi congenita e proviene da un passato triste di “fenomeno da baraccone” (ricordiamo il capolavoro “Freaks” di Tod Browning del 1935, che fu fondamentale modello per la Arbus e “The Elephant Man” di David Lynch del 1980, altra opera eccellente) e Diane accetta di mettere a nudo le proprie debolezze, prima tra tutte quella d’essere guardata maliziosamente e provarne piacere, senza vergogna.

Nella piccola piscina di Lionel i due si raccontano e Diane ha all’improvviso una visione atroce: una cameriera che cammina verso di lei e tra i genitori pellicciai, con un vassoio in mano. Vi giace un procione morto: presagio di malasorte o di mutamento radicale della propria vita. A questo punto il film fortunatamente decelera e muta in una gradevole storia d’amore e anche di crisi coniugale, perché Diane, più determinata, coinvolge la propria famiglia ed il marito Allan, facendogli conoscere Lionel e i suoi amici freaks. Loro non sono accettati dal diniego perbenista e conformista del marito che rappresenta, in una perfetta ricostruzione, la società americana di quegli anni ed anche il ruolo della Kidman è caratteristico della condizione femminile ben poco emancipata. Nella decisione d’esplorare quel mondo bizzarro c’è anche la volontà di trovare se stessa, al di là del consueto ruolo di madre e casalinga. Nel paragonare la pelliccia d’animali morti e la peluria debordante, ma viva, di Lionel c’è la metafora di un mondo ipocrita nutrito d’esteriorità ed il contatto con l’esistenza del reale. La società borghese contrapposta ad una ricerca di libertà. Non è poco per un’opera di fantasia ed il resto della favola, di questa inconsueta versione de “La Bella e la Bestia”, va taciuto per non svelarne la poetica conclusione.

L’attrazione di Diane Arbus per questi uomini e donne diversamente normali, è palese nelle tante memorabili fotografie che ne hanno fatto la fotografa più famosa del ‘900. Ebbe l’appoggio di Richard Avedon, Walker Evans e Robert Frank, che elogiarono la capacità di catturare figure partecipi o disinvolte ma mai ritratte con ipocrisia e falsità. Frequentare gli ambienti dei travestiti, degli omosessuali, dei malati di mente e dei nudisti, fu opportunità di far vedere a chi non vorrebbe vedere ciò che è parte di noi tutti, forse meno evidente o forse ben nascosto dietro una solida facciata. Se è vero che ognuno è anche parte di ciò che gli altri pensano di lui, la Arbus ci ha messo nella condizione di vedere meglio oltre le apparenze fisiche e come nel film di Browning non possiamo negare i giudizi che spesso rivolgiamo agli altri e meno o mai verso noi stessi.

Giunsero puntuali le critiche dei conservatori benpensanti, quelli che fanno beneficenza per abitudine o per noia mondana; tuttavia la Arbus pubblicò le proprie foto su Esquire, Bazaar, New York Times, Newsweek, e Sunday Times. Nel 1965 espose al Museum of Modern Art di New York e ancora due anni dopo. Soffernte di crisi depressive, morì suicida nel 1971 all’età di quarantotto anni. Stanley Kubrick, che incontrò negli anni ’50, le rese omaggio in “Shining” (1980) con le gemelle Grady, simili ad una celeberrima fotografia ed anche con l’orrore della stanza 237, luogo del suicidio. Shainberg restituisce l’omaggio nel filmare la figlia di Diane che gira nell’atrio col triciclo, come Danny nei corridoi dell’Overlook Hotel.
Nonostante la fama e la celebrità, occorre notare che ancora oggi la Arbus è spesso identificata come la “fotografa dei mostri”: segno che certi preconcetti appartengono alla società moderna e non all’antichità e sono proprio oggi, ora, complicati da una tendenza all’apparire, al farci guardare con una maschera che ci ricopre fino nell’intimo.
 
 
 

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