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Un'orchidea rosso sangue

Regia di Patrice Chéreau vedi scheda film

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La recensione su Un'orchidea rosso sangue

di alan smithee
6 stelle

CINEMATHEQUE DE NICE - RETROSPETTIVA PATRICE CHEREAU
Occasione ghiotta quella offerta ai cinefili nel mese di febbraio dalla Cinemathèque di Nizza, che propone al suo pubblico di iscritti, fra le altre, una rassegna completa dedicata all’opera cinematografica all’apprezzato regista Patrice Chéreau, scomparso di recente. Ieri sera si iniziava con la controversa opera d’esordio, La chair de l’orchidé, datata 1974.   Entrando nella bella e moderna sala della struttura polivalente che precede il suggestivo nuovo parco che conduce a Place Massena e quindi alla celebre Promenade, il gestore della sala ci avverte che la pellicola del film, originaria dell’epoca e mai restaurata, appare inevitabilmente arrossata da quell’inconfondibile pallore marziano che caratterizza allo stesso modo le vecchie foto della gioventù che noi quaranta/cinquantenni custodiamo ancor oggi in un cassetto di casa: è la fragilità del colore che non regge degnamente la sfida del tempo, e che rende le nostre foto anni ’70 più vecchie ed usurate di quelle ancora vivide ne loro orgoglioso bianco e nero, ritraenti i nostri padri o nonni. E, come correttamente ci è stato preavvisato, l’inizio del film in effetti appare spiazzante, intriso di un alone rosso che tinge boschi e vallate di un territorio svizzero altrimenti incolore nei suoi foschi toni invernali severi e glaciali, reso macabro dall’eccessiva colorazione sopraccennata. Una tonalità che alla lunga finisce per rendersi coerente e quasi coadiuvare una trama invero contorta e farraginosa, ma a tratti anche coinvolgente nonostante un avvicendamento macchinoso e spesso pure non molto chiaro. Storie di bramosia, di vendette, di lasciti immani contesi da una anziana signora che non esita a far dichiarare malata di mente la bizzarra splendida nipote, unica vera legittimata a far propria una immensa ricchezza accumulata da genitori scomparsi da tempo. Un progetto determinato volto a far si che l’eredità maestosa finisca delle mani del viziato ed insicuro figlio unigenito della maliarda.   Su questa vicenda principale si innesta tuttavia una doppia storia di fuga: della ragazza innanzi tutto, dalla clinica nella quale è da tempo rinchiusa, e di due bizzarri loschi faccendieri, di uno dei quali si innamora l’eccentrica giovane. Una ragazza dalla bellezza selvaggia e non comune, spesso sopraffatta e brutalizzata da uomini senza scrupoli; una donna che ha imparato a difendersi, accecando i suoi assalitori con una lama acuminata che non lascia scampo. Una fuga con l’unico uomo che riesce a risultarle rassicurante (Bruno Cremer, un po’ costretto e affaticato, che tornerà in età matura a far coppia con la Rampling nell’altrettanto enigmatico ma riuscitissimo “Sotto la sabbia” di Ozon), a sua volta braccato da due spietati killer, un tempo lanciatori di coltelli in un circo, in quanto testimone oculare dell’omicidio dell’amico poco prima accecato dalla ragazza. Una fuga che spinge la ragazza sino in Italia, ove verrà rinchiusa in un vecchio teatro in disarmo in cui  scorrazzano tranquille e paffute galline bianche, becchettanti senza sosta su una moquette porpora inquietante e sotto soffitti imponenti che rivelano sfarzi di tempi ormai lontani. Un rapimento con fuga  che vedrà nuovamente la ragazza in balia dei suoi parenti bramosi, nella maestosa villa svizzera tanto contesa, una fortezza presa d’assalto in un finale macabro e sanguinolento dove molto in pochi riusciranno a sopravvivere. Un sonoro pastoso con frequenti salti nei dialoghi non aiuta granché a chiarire i dubbi di una sceneggiatura che fatica a destreggiarsi nella materia complessa, probabilmente meglio chiarita nel romanzo da cui la vicenda risulta adattata. Tuttavia per Chéreau, all’epoca giovane trentenne con alle spalle una già notevole fama teatrale colma di soddisfazioni, si tratta pur sempre di un esordio nel cinema degno di nota, dove la spiccata tendenza a rifugiarsi nella sontuosa asfissia di ambienti chiusi e spesso desolati, e la ambiziosa costruzione di molte ambientazioni, con scorci di provincia affollati di vecchi e curiosi, di ambienti circensi kitch ed inquietanti, sono in grado di conferire ad una pellicola, spesso ridondante e farraginosa, un fascino indiscutibile che la allontana dalla routine del giallo erotico senza pretese, piuttosto in voga in quegli anni.   Un fascino che trova come sua principale leva di forza, la presenza di una selvaggia e forse mai così perfetta bellezza di Charlotte Ramplig, sguardo fiero da lupo della foresta che indietreggia impaurito, ma non meno aggressivo, senza tuttavia accennare ad una resa. Simone Signoret e Edwige Feuillere si ritagliano con la professionalità e lo charme che conosciamo, due ruoli di contorno che si sviluppano in modo da divenire indispensabili per il complesso avvicendamento delle fosche trame. Alida Valli e Valentina Cortese sono invece coinvolte in due camei di lusso un po’ troppo sbrigativi, in un film popolato da uomini malvagi e prepotenti e da vecchi brutti e maligni, con tuttavia almeno due donne (zia spietata e nipote pazza)che sanno tener loro testa con la forza della determinazione e della manipolazione, armi spietatamente femminili spesso più risolutive della banale o prevedibile forza bruta.

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