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Il diritto di uccidere

Regia di Nicholas Ray vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il diritto di uccidere

di ed wood
9 stelle

Uno dei migliori esiti della poetica ray-ana, senza dubbio un capitolo importante nell'evoluzione del cinema americano. Come altri film di Nick Ray ha il fascino irregolare della purezza scalfita, sfregiata, proprio di tutte quelle opere che intendono rompere gli angusti argini imposti dalla classicità. Nick Ray dimostra qui di essere nato nell'epoca sbagliata, costretto a fare i conti con un codice Hays ancora imperante e frustrato dalle briglie imposte da un'industria, quella hollywoodiana, ostile ai cambiamenti radicali. La preziosità della proposta ray-ana consiste nel fatto che questa sua rottura degli schemi classici non si configura con l'adozione sistematica dell'estetica espressionista welles-iana (grandangoli, inquadrature sbilenche, profondità di campo, scomposizione cronologica etc...), che, all'epoca, si presentava forse come l'unica via percorribile (a Hollywood) verso una modernità espressiva, cosa che invece fecero (declinandola alle rispettive poetiche) i vari Huston, Aldrich e in parte Fuller. La spinta innovativa di Nick Ray si basa piuttosto su piccole ma decisive trasgressioni ai codici estetici in una narrazione sostanzialmente tradizionale, lineare: e così irrompono, come fulmini a ciel sereno, sguardi in macchina, brevi soggettive, piccole ellissi, plongée e contro-plongée da angolature estreme, improvvise accensioni luministiche, inquadrature prolungate, sprazzi di inusitata violenza sanguinaria, primi piani sensuali, sino ad un finale completamente aperto. Il tutto all'insegna di quell'amoralità, quell'ambiguità, quella mescolanza di toni, quell'assenza di catarsi che costituiscono i cardini di tanto cinema moderno. Da qui il fascino spurio, tormentato, insofferente di questo cinema, la sua ribellione soffocata, il suo furore represso: tutto il senso di uno scardinamento di un modello stilistico (e morale) considerato non più adeguato a contenere una nuova, estrema, debordante gamma di sentimenti. Ma quanto è bella, torrida, erotica, sfrontata, vitalista, disperata la sequenza muta in cui i due amanti amoreggiano di fronte ad una mulatta che suona il piano in un locale? La mdp alterna un piano fisso su Bogey e la bionda, poi la pianista, poi ancora loro due in contro-zoom. Se avesse potuto, Ray avrebbe fermato lì il film, in quell'idillio malato e precario. Aveva ragione Godard a dire: "Il cinema? Nick Ray". L'irrequieto sguardo del regista, i suoi impulsivi sconvolgimenti stilistici, la sua lacerata, instabile messinscena dove desiderio, aggressività e poesia vanno a braccetto, si riflettono nella figura del protagonista, interpretato da quello che è stato forse (assieme a James Stewart) il più grande attore della vecchia Hollywood, colui che inventò la figura dell'anti-eroe cinico e maledetto (lasciando da parte i casi patologici dei gangster Cagney e Robinson): il Dixon Steele di "Il diritto di uccidere" costituisce il culmine di una figura negativa che Humphrey Bogart aveva proposto un decennio prima nei vari "Il mistero del falco" e "Casablanca", passando per "Il tesoro della Sierra Madre". La forza, la modernità scandalosa di "Il diritto di uccidere" sta nella totale assenza di motivazioni e scusanti sociologiche, ambientali, psicologiche alla violenza inferta da Dixon Steele. Egli agisce solo per stinto, passione, arroganza, egoismo. Non c'è nessuna società ostile ad indurlo alla violenza (nonostante una rappresentazione sordida del mondo hollywoodiano, parente stretta del coevo "Viale del tramonto"); non c'è nessun trauma giovanile da superare. Dixon è violento perchè la violenza è una necessità, una forza che prima o poi deve esplodere. Non c'è nessuna velleità di riscatto, solo passione ardente, desiderio. Laurel, la sua donna, non è colei che può fargli "mettere la testa a posto", ma solo la partner per una coppia balorda, versione adulta, corrotta e smaliziata dei giovani gangsters apatici della "Donna del bandito". Dixon è un "homme fatale" (per gli altri e per se stesso): egli deve solo a se stesso, alla sua natura, alla sua incoscienza il peso delle sue azioni. E' l'alter-ego di Nick Ray: come quest'ultimo squarcia la narrazione di folli, inusitate eresie filmiche, Dixon (che, non a caso, di mestiere fa lo sceneggiatore, suggerendo così il potere eversivo dell'arte) si abbandona al cieco impulso violento. Tra gli estremi del noir e del melo, negandoli entrambi, Ray corrode le vacillanti certezze di una Hollywood che solo parecchi anni più tardi avrebbe conosciuto simili, brucianti disillusioni. 

 

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