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Gli amorosi

Regia di Mai Zetterling vedi scheda film

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La recensione su Gli amorosi

di spopola
6 stelle

Mai Zetterling, prima che una  dignitosa regista dallo spirito fortemente destabilizzante e antiborghese, è stata una delle “grandi attrici” del cinema svedese, indimenticabile interprete delle opere di Sjöberg, Molander, Dearden e…  soprattutto di Bergman, che rimane il “nume” tutelare che più ha influito e segnato (nel bene e nel male) la sua formazione artistica proprio nel passaggio “al di qua” della macchina da presa. E Bergman (ma anche la caustica irriverenza classista dello Strindberg della Signorina Giulia) è il nome che più frequentemente viene alla memoria dall’analisi di questa sua prima regia che ebbe il privilegio di essere presentata al Festival di Cannes del 1965, ma con un esito critico abbastanza deludente nonostante le attese.
Una pellicola “scandalosa” e in forte odore di peccato (“scabrosa”, così la definirono i nostri recensori che ebbero occasione di visionarla in terra di Francia, e non furono davvero molto “gentili” nel bollarla come fortemente licenziosa ma un po’ troppo velleitaria  e “irrisolta”), che in Italia pagò poi il fio del  consueto “massacro” censorio (ma sarebbe andata ancora peggio alla sua seconda fatica, quel Giochi di notte, pellicola scandalo della Mostra veneziana del 1966 dove per non turbare il comune senso del pudore dei normali spettatori in sala, venne proiettata a “porte chiuse” solo per giuria e giornalisti, e questo semplicemente- o a causa - di una scena di masturbazione che non sapremo mai, noi comuni mortali, come era davvero fatta, perché nella copia italiana, ridotta da 105’ a 96’, non ce né rimasta  traccia alcuna)  che ne alterò notevolmente la fisionomia e il senso (e purtroppo è proprio di questa edizione mutilata - con amputazioni che superano complessivamente i dieci minuti di durata - che sono costretto a parlare, poiché è l’unica che sono riuscito a recuperare in “prestito” da un amico collezionista).
Mai come in questo caso allora, prima di esprimere un giudizio, è necessario rapportare il film al periodo e al “clima” di quei tempi, poiché occorre sempre tener presente che il cinema (come ogni altra opera più o meno artistica, ma non solo) è il prodotto di una certa società e non lo si può mai giudicare in astratto, senza prima averne analizzato (valutato) le componenti economiche, politiche, industriali e sociali (Flavio Ruffatto) che lo hanno generato. E’ inevitabilmente necessario inoltre ricostruire e riconsiderare l’aria (in questa circostanza di ferreo bigottismo oscurantista) e i “movimenti” anche culturali che ci giravano intorno.
La derivazione Bergmaniana del lavoro della Zetterling,  individuabile gia nella situazione di partenza, molto vicina a quella di Alle soglie della vita, si ritrova in moltissime altre componenti, a partire dalla straordinaria fotografia, anche in questo caso opera del magnifico Sven Nykvist, oltre che nel folto gruppo di interpreti (praticamente tutti o quasi appartenenti a “quella” specifica scuola o “esperienza” che dir si voglia: immaginate riuniti insieme fra gli altri, Harriet Andersson, Gunnel Lindblom, Gunnar Björnstrand, Anita Björk e Eva Dahlbeck, solo per citare i più famosi e conosciuti, e comprenderete perfettamente di che cosa parlo) che ne riproducono “fedelmente”, ma anche con maggiore “immediatezza” e disponibilità creativa individuale, gli stilemi recitativi  (con una resa complessiva di altissima qualità, anche se meno “controllata” negli equilibri generali  di quanto non avveniva in genere nei “rapporti” formalmente ineccepibili  che riusciva a imporre e raggiungere la mano del Maestro).
Era forse persino inevitabile nel primi anni ’60  per una cinematografia nordica in forte movimento espansionale che aspirava ad  internazionalizzarsi come quella svedese, questa sudditanza derivata. Nel  caso in esame però credo che non si tratti di semplice “opportunismo” poiché  la personalità  e il  “carisma”  di Bergman sono state caratteristiche così prepotenti da lasciare tracce indelebili in tutti coloro che in un modo o in un altro sono entrati in contatto con la sua arte e che, volenti o nolenti, ne hanno poi “dovuto fare i conti” (come conferma il lavoro realizzato, sempre in campo registico e in tempi più recenti, anche da Liv  Ullmann).
Persino quella che potremo definire la “filosofia interpretativa” è figlia di quel tempo: dichiaratamente “femminista” la matrice (o meglio, insolitamente realizzata seguendo una visione rigorosamente al femminile della vita e dei rapporti),  e non solo perchè è una donna a dirigere, ma perché già serpeggiavano nell’aria (e qui sono particolarmente evidenti) alcune delle idee fondanti di un movimento che sarebbe esploso con particolare veemenza solo un pugno di anni dopo ma che già allora cominciava a non poter essere ulteriormente eluso.
Sulla Croisette, il film pagò forse lo scotto più che per la “delusione” di una “rivelazione” mancata, a  causa di un voyeurismo  mortificato più del previsto dalla realtà e dagli intenti, che fu costretto a confrontarsi con un risultato indubitabilmente di minore licenziosità rispetto a quelle che erano le attese, poiché questa pellicola dall’inusuale andamento acre e pungente  (quasi irritante, in certe situazioni un po’ provocatorie), soprattutto quando riesce a sottrarsi (e da queste si affranca) alle pesanti “attrazioni” bergmaniane e a trovare una sua maggiore autonomia di linguaggio, ha pregi non secondari, così pervasa com’è da un alito di freschezza e di garbo davvero insolito, oltre che da una sana sessualità intrisa però di pudica spregiudicatezza, perfettamente in sintonia con le modalità di narrazione tipiche della cultura scandinava (che all’epoca furono invece elementi decisamente sottovalutati).
Di “peccaminose” e sconvolgenti “implicazioni”  che potevano disturbare la morale però, in ciò che è arrivato in Italia, restano solo labili tracce (e non certamente perché la spregiudicatezza dei giorni nostri ci ha nel frattempo abituati a ben altri “libertinaggi” trasgressivi). Si ritrovano infatti soltanto, più che in alcuni riferimenti comprensibili, ma non eccessivamente marcati, relativi a rapporti ed “amicizie particolari” di natura lesbica,  in due bellissime scene – una nel bosco, l’altra nel lago – di amplessi sessuali “completi” (ma fotografati senza pruderie o morbosi compiacimenti, e soprattutto con una carezzevole pulizia dei movimenti di macchina che li rende “castissimi” atti d’amore). Io ho ad ogni modo fortissimi dubbi che già in partenza la pellicola possedesse caratteristiche così disturbanti da meritare i tagli subiti e che fosse più il messaggio veicolato a fare paura. Difficile capire cos’è stato soppresso, ma la fluidità senza “scarti” di ciò che ci viene mostrato a livello di immagini, mi lascia pensare che si tratti di marginali cesure, e che le forbici abbiamo eliminato qua e là brani ben più consistenti  di “racconto” (lo si rileva da certi “buchi” che rendono a volte un po’ confusa e talora leggermente incomprensibile la vicenda, che trae per altro origine da alcuni romanzi della scrittrice Agnes von  Krusentstierna) già organizzato  in fase di sceneggiatura, con un farraginoso susseguirsi  di troppi flash-backs che ne appesantiscono un poco l’andamento. Le ipocrisie (da quelle moralistiche a quelle religiose, a quelle nazionalistiche e “patriottarde”), costituiscono infatti il bersaglio prioritario verso il quale la Zetterling intende scagliarsi (e magari nell’originale “integro” riusciva a farlo con maggiore veemenza, ed era proprio questo che spaventava soprattutto l’Italia, poiché si ha la netta impressione che ci sia stato persino un “infedele” adattamento dei dialoghi da parte dei nostri  soliti solerti “traduttori” ossequienti, per addolcire i toni e renderli meno “pericolosi”).
C’è molto livore (anche “personale”) che viene trasfuso con insolito vigore nelle tre storie che costituiscono il nucleo della pellicola.  L’epoca  è quella degli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale, e come  nel già  citato film di Begman, le protagoniste sono tre donne che - indirettamente – appartengono allo stesso nucleo familiare, ma presentano caratteristiche psicologiche fortemente differenziate e diseguali percorsi di vita e formativi,  che si ritrovano “casualmente” insieme nel reparto maternità di un ospedale.  La prima, Agda (la Andersson) è una  ragazzotta che potremmo definire sventata e leggera (un po’ puttanella si sarebbe detto allora), ma in fondo buona e positiva (di nobili sentimenti) sverginata da un presuntuoso ufficialetto senza nerbo - e da questo data in sposa a un consenziente pittore al quale lei fa anche da modella – che non esiterà però a passare la prima notte di nozze proprio con quel militare ipocrita che l’ha svergognata, anziché con il marito riparatore,  ed è questa una sottolineatura feroce che la Zetterling riesce a rendere particolarmente incisiva: sono cose che capitano sovente  nelle migliori famiglie borghesi, sembra voler precisare  con rancoroso sarcasmo, poiché “davvero” nella vita tutto è convenienza e opportunismo, oltre che “apparenza”, che è poi la morale anche della seconda storia raccontata, quella di Angela (Gio Petre),  classica ragazza sentimentale e un po’ torbida nei suoi affetti, che vede la maternità come una conquista individuale. Cresciuta nella ferrea disciplina di un collegio di sole fanciulle, rimarrà fortemente turbata dall’assistere casualmente all’accoppiamento sessuale di due cani, e subirà “passivamente” le avances di una nevrotica istitutrice che imposterà con lei un torbido rapporto omosessuale. Tutta la sua vita rimarrà però segnata negativamente da queste esperienze traumatiche che la porteranno ad “affezionarsi” altrettanto morbosamente alla zia Petra (Anita Björk) e a concepire un figlio (optando però poi per una vita che esclude totalmente la presenza maschile, e che vedrà le due donne occuparsi da sole del bimbo che sarà così allevato all’interno della loro relazione, come se fosse il figlio di entrambe) proprio  con l’ex amante di quest’ultima. La terza è la storia di Adele (interpretata dalla Lindblom), una donna che la vita e le esperienze hanno reso disincantata e delusa, messa al bando  a causa del suo anticonformismo,  proprio dai benpensanti della buona società dalla quale proviene. Anche per la rancorosa Adele, che ha a sua volta “donato” il suo cuore e il suo corpo a un bellimbusto di buona famiglia che l’ha abbandonata prontamente al suo destino dopo aver raggiunto il proprio “obiettivo” sessuale, saranno immaginate scelte che si ricollegano un poco a quelle di Agda, anche se con differenti “motivazioni comportamentali”, poiché al fedele e innamorato marito dolce e premuroso che le ha “restituito una parte di quella dignità sociale che aveva perduto”,  ma che ha il torto però di essere soltanto un onesto lavoratore e quindi di appartenere a una classe sociale più bassa  che “non merita il suo rispetto”, continuerà a “preferire” il cicisbeo che l’ha degradata solo per la sua appartenenza a quella “elite” privilegiata che le norme ufficiali della propria etica, la portano in ogni caso a favorire.
Come si evince, l’episodio di Angela rappresenta  indubbiamente il punto più delicato e scabroso, ma anche quello che viene trattato dalla neo-regista con profonda  e particolare delicatezza (ed è proprio questo che mi fa pensare che non ci fosse poi niente di così “perverso” nemmeno nei pezzi eliminati).
L’analisi  spietata di ciò che rappresenta nella vita “lo strumento sessuale”  e le divergenze operative che ne derivano, sono elementi che vengono utilizzati dalla Zetterling come vere e proprie cartine di tornasole: al parossismo, all’egoismo e all’idiozia di una classe dominante così becera, si può infatti rispondere in molti modi, questo  è indubbio e ce ne potrebbero essere alcuni ancora più giusti e razionali di quelli scelti e adottati in questa circostanza, ma perché respingere l’idea che tale battaglia possa essere invece combattuta semplicemente proponendo una libertà assoluta (e su tutti i fronti) valorizzando così ciò che – al di là dei sessi – si è mantenuto integro e assicura una continuità e una qualsivoglia soluzione in positivo della propria vita? Questo mondo in sfacelo, destinato a non più risorgere, e soprattutto le azioni dei singoli individui opportunamente scelte con l’intento (spesso infruttuoso) di salvare il salvabile, e che di conseguenza diventano  l’obiettivo primario per tentare una ipotesi di sopravvivenza in serenità e onestà di intenti , trovano nella Zetterling una “descrittrice” appassionata e un’abile rievocatrice di atmosfere. L’agibilità e la maneggevolezza della sua  macchina da presa, la vivacità e la sincerità  dei suoi attori (ne ho già evidenziate le qualità preminenti) insieme alla padronanza della difficile sceneggiatura, sono le non trascurabili doti che emergono, confermando così, anche in questa ambigua e monca edizione italiana, a quali risultati si possa pervenire quando non si compie il lenocinio di se stessi e delle idee nelle quali si crede, bensì si cerca umilmente di servire anche con la semplicità dei mezzi espressivi di un’opera cinematografica, a un rinnovamento del costume e a una crescita per quanto concerne la conoscenza e l’accettazione. Magari non si realizzano opere memorabili, e si rimane molto lontani dai vertici assoluti dell’arte, ma questo non toglie l’importanza “documentaria” d una pellicola come questa che ha tentato, sia pure con scarso successo, ma non certo pere proprie responsabilità,  di precorrere persino i tempi.

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