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Squillo

Regia di Mario Sabatini vedi scheda film

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La recensione su Squillo

di moonlightrosso
1 stelle

Un "David di Donatello" mancato per un film che vorrebbe coniugare finzione e denuncia sociale.

Dagli archivi di Mediaset riappare miracolosamente un film ritenuto dai più irrimediabilmente perduto.

Un'opera ammantata di un'aura di leggenda, vuoi per il nome del regista (assolutamente "cool" per gli adoratori del brutto), vuoi per un nutrito cast di bonazze dell'epoca, vuoi anche e soprattutto per l'argomento trattato che non poteva non esser foriero, almeno per noi smaliziati trashisti, di entusiastico interesse.

Il film ci narra la "triste historia" di Bettina (Anna Maria Polani), una giovane e ingenua ragazza di provincia che dal paesello natìo si dirige verso la "città eterna" per far visita a sua cugina Mila, interpretata dalla "Brigitte Bardot di casa nostra" Cristina Gajoni. Dimostrando un'intraprendenza decisamente in anticipo sui tempi, la nostra, durante il tragitto sul treno, trova modo d'attaccar bottone con un giovane ingegnere (il francese Pierre Cressoy). Vincendo la ritrosìa del nostro bel tenebroso, la ragazzotta, dopo avergli messo una mano sul seno per fargli sentire come batte il cuore (sic!), avrà altresì l'ardire di scambiar con lui il numero di telefono, il tutto sotto gli sguardi accigliati e attoniti degli occasionali compagni di viaggio.

Arrivata a destinazione, Bettina farà la conoscenza di Nora (Gina Rovere) che condivide con Mila una splendida villa fuori porta con tanto di cameriera e maggiordomo di servizio.

I discorsi delle ragazze, la vita dispendiosa e il lusso sfrenato, lasceranno chiaramente intendere anche all'ingenua Bettina quale sia mai l'assai redditizia attività della cugina Mila e della sua degna amica Nora.

Dovendo scegliere tra la storia d'amore con il giovane ingegnere conosciuto sul treno - intriso di paturnie di moralità - e il mestiere più vecchio del mondo, la povera Bettina finirà per cedere alle lusinghe di quest'ultima soluzione della quale si pentirà ma sarà troppo tardi.

All'indomani dell'entrata in vigore della famigerata e ancor oggi discussa "Legge Merlin" sulla chiusura delle c.d. "case di tolleranza", il cinema italiano degli anni sessanta intraprese un discorso di denuncia sociale sul mondo della prostituzione. In particolare, si decise di focalizzare l'attenzione su certe ragazze sprovvedute e ingenue provenienti da realtà rurali, le quali, abbacinate dai facili guadagni, finivano per diventare le vittime sacrificali predilette di un sistema criminale avente come unico obiettivo lo sfruttamento dell'essere umano.

Opere autoriali come "Adua e le compagne" (1960) di Antonio Pietrangeli, "Mamma Roma" (1962) di Pierpaolo Pasolini e il curioso "La Celestina P.R." (1965) di Carlo Lizzani inaugurarono un filone a cui seguirono prodotti dove, per esigenze commerciali e al fine di evitare problemi censorei, l'impegno sociale cedeva inevitabilmente verso i più facili registri del drammone da fotoromanzo.

Il carneade Mario Sabatini, cavalcando l'onda del filone e spuntando praticamente dal nulla, si autoproduce (sicuramente coinvolgendo altri malcapitati finanziatori) un progetto che lo vede in qualità sia di regista, che di unico soggettista e sceneggiatore.

L'insipienza dell'improvvisato cineasta, che nel film si ritaglia anche il piccolo ruolo di un improbabile regista (mai tale parte fu più azzeccata!), si manifesta in tutta la sua preclara evidenza in una disarmante incapacità di dirigere un panorama attoriale non eccelso ma comunque meritevole di miglior sorte. Spiace vedere infatti la povera Marisa Merlini nel ruolo d'una "maitresse", a provare non poco imbarazzo nel ripeter battute artefatte e posticce improvvisate là per là sul set. Se l'imbambolato Pierre Cressoy, nel ruolo dell'ingegnere, si dibatte tra un'espressività degna dell'"Antonio Barozzi" in "Sono fotogenico" ed esplosioni moralisticheggianti da pretucolo di campagna, non va meglio il suo amico e confidente nonchè collega di lavoro. Nel supportargli e alleviargli le "pene d'amore" per la bella Bettina, non troverà di meglio da dire se non "...fatti coraggio", oppure ancora "...vedrai che tutto si risolve" e amenità similari. Partecipazione straordinaria per la tedesca Mara Krupp, nel ruolo di una diligente segretaria perdutamente innamorata "ca va sans dire" del nostro bell'ingegnere, che a parte esibire un fisico da pin-up e una faccia da perfetta idiota non pare avere molte altre frecce al proprio limitatissimo arco attoriale.

In un contesto dove ci si prende incredibilmente sul serio, pensando di vincere il "David di Donatello", aggiungiamo: le scene alla "buona la prima"; le voragini di sceneggiatura; l'impegno sociale iperqualunquista; le non poche perle di trash e di squisita comicità involontaria: su tutto e su tutti la festicciola organizzata dalle prostitute a casa propria con "amici" pariolini in cui ci si scatena al ritmo di deliranti twist e di una sconosciuterrima canzuncella "ye-ye" (guarda caso dal titolo "Bettina" (sic!)), in cui si esibisce con la procace Gina Rovere un impareggiabile nanerottolo ballerino e playboy. Ciò senza dimenticare il finale strappalacrime con l'ingegnere fintosi cliente per smascherare Bettina; questa confesserà la propria crisi di identità (quale sarebbe?) al termine di un farneticante flusso di coscienza provocato dalle accuse dell'amato, anelante a una famigliola con vocianti pargoletti e relativa casetta di proprietà, il tutto secondo un didascalismo da far cadere le braccia anche alla più sprovveduta sartina o al più illitterato militare in libera uscita.

Dopo questo clamoroso insuccesso, che pare abbia avuto fra l'altro limitatissima circolazione, il Sabatini sarà costretto a un silenzio durato circa sette anni prima di tornare a impazzare con i suoi capolavori dell'ultrapoverismo e concludere la sua modestissima carriera girando "uncredited" alcuni pornazzi di infimo ordine come tanti altri cineasti della sua risma.

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