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L'ultimo Capodanno

Regia di Marco Risi vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo Capodanno

di LorCio
6 stelle

Può un film decretare la fine temporanea di un regista stimato ed apprezzato? Sì. Un esempio lampante è L’ultimo capodanno, che rischiava di essere l’ultimo film di Marco Risi. Solo recentemente è tornato ai buoni livelli dei primi anni. Il film, tratto da un racconto dell’allora cannibale Niccolò Ammanniti, fu un fallimento economico ingente che per poco non mandò in rovina Risi e Maurizio Tedesco: una commedia ad alto costo zeppa di effetti speciali e di attori di prima o di seconda fascia, complessa e scatenata, giocata sul filo del grottesco (genere notoriamente poco avvezzo agli spettatori italiani) con più di una caduta di gusto ordinario che è in realtà cifra stilistica (la sgradevolezza regna sovrana, ma è l’obiettivo reale, e dopotutto non si può rappresentare un certo mondo romano senza cadere di gusto) e una trama frammentaria, scombinata e volontariamente disordinata.

 

 

Il film ha il fascino malato dei film imperfetti, romanocentrico quanto basta per dispiacere su e giù il Tevere, universale o particolare a seconda dei punti di vista, eppure disgraziatamente disperato nella sua vitalità forzata (d’altronde Capodanno è il momento dell’anno in cui più o meno tutti si sforzano di essere felici rasentando il ridicolo): ne viene fuori un terribile ritratto corale all’interno di un complesso residenziale della Capitale, in cui spiccano una moglie (Monica Bellucci in nudo integrale) a cui il marito (Marco Giallini) mette le corna con un’amica sporcacciona e radical chic (Francesca D’Aloja); un avvocato che ama il sadomaso (Alessandro Haber) con famiglia in montagna; una famiglia che sembra emanazione del Mulino Bianco (Piero Natoli e Emanuela Grimalda); un gigolò (Giuseppe Fiorello) alle prese con le voglie di una vecchia nobildonna (Maria Monti); due tossici (Claudio Santamaria e Max Mazzotta) a casa di uno di loro, mentre la mamma (Iva Zanicchi) cucina il capitone e canta La Bambola; una moglie che aspetta da dieci anni il ritorno del marito sequestrato; tre ladri (Ricky Memphis, Giorgio Tirabassi e Natale Tulli che pronuncia una memorabile battuta: Memphis: “addo se vojono fa le olive ascolane? Ad Ascoli!” e Tulli, scuotendo la testa, secco e perentorio: “a Macerata!”); una comitiva di sportivi caciaroni con Adriano Pappalardo a metà tra Attilaflagellodidio e Kurt Russell.

 

 

Discontinuo e sfrenato, vissuto sull’orlo di una crisi di nervi con una parentesi esoterica in cui prendono vita due morti dell’ottocento (c’è tutto un filone sulle allucinazioni derivate dal consumo di un’erba), tesissimo e irrequieto, scoppia letteralmente in un’ultima parte devastante in cui crepano tutti in circostanze assurde (un petardo in corpo, un uncino nel cuore, fucilate, un televisore in testa, scosse elettriche, una mano amputata…) e alla fine un’esplosione catartica e risolutiva spazza via il complesso residenziale, mentre una madre e un bambino osservano da lontano il fungo atomico elevarsi in cielo. Si salva solo uno di loro e dietro l’apologo (morale) forse c’è solo l’allucinazione. Ingiustamente sottovalutato, merita un recupero e una seconda lettura perché di film così, in Italia, non se ne fanno. A suo modo, per quanto imperfetto e non del tutto riuscito, un oggetto raro.

 

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