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Un mondo di marionette

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un mondo di marionette

di Unmondodimarionette
10 stelle

Secondo me è una delle opere più straordinarie e sottovalutate di Bergman, ma anche una delle più spietate. L'irrimediabile discesa agli inferi di Peter Egerman è nei suoi risvolti psicologici una denuncia alla società contemporanea, il suo annientamento programmato («Mi faccio saltare in aria a brandelli») l'unico modo per adeguarsi alla realtà

Un mondo di marionette è l’ultimo film della parentesi tedesca di Igmar Bergman e una delle opere più spietate, oscure e feroci nella pur lunghissima e straordinaria produzione del regista, uno sforzo lungo quasi cinquanta pellicole tutte rigorosamente scritte e dirette dal maestro.

Vorrei iniziare a parlare di questo film descrivendo una scena, agghiacciante, forse più inquietante del delitto stesso con il quale si apre il film.

 

Peter Egerman e sua moglie Katarina sono stesi nel loro letto, Peter sta leggendo un libro ed ha l’aria annoiata. Sua moglie si sta scusando per essersi comportata come un “oca isterica” quella sera, ma lui le manifesta tutta la sua indifferenza per quelle scuse ormai logore e diventate una triste routine. Peter le parla di come hanno disperso il loro capitale d’amore e del fatto che non ci sia più alcuna speranza per loro. La sua unica preoccupazione, dice, è quella di evitare ogni disordine che possa mettere a repentaglio il sistema di sicurezza che con tanta cura ha escogitato.

« Allora dovresti smettere di bere»

«Devo prendere il coraggio di mettere fuori uso il mio sistema»

«Che ci guadagni in questo modo?»

«Mi faccio saltare in aria a brandelli»

«E cosa rimane poi?»

«Un groviglio di carne, di sangue e di nervi»

«E credi che è meglio questo?»

«Per lo meno mi adeguo di più alla realtà che mi circonda»

 

Sono queste le parole drammatiche che esprimono, verso la metà della pellicola, la volontà di annientamento di Peter Egerman, perché, come dice lo psichiatra, nonché amante della moglie, Mogens Jensen, «Se non c’è l’Io, non c’è la paura».
Parole che contengono altresì un atto di accusa verso la società borghese nella quale vive, o forse ancora più in là, un atto di accusa verso l’uomo contemporaneo che galleggia nell’indifferenza, nell’apatia, nell’alienazione.

 

Il film inizia con Peter Egerman che si scambia effusioni con una prostituta, poi, in preda ad un raptus, la strangola. Le immagini sono a colori, ma da quando la scena si chiude è il bianco e nero a dominare e lo sarà fino alle scene finali, quando lo sviluppo circolare della storia ci riporterà sul luogo del delitto.


La pellicola si propaga attraverso frammenti narrativi preceduti da una didascalia che le contestualizza; si passa dal colloquio fra lo psichiatra Morgan Jensen e l’investigatore 24 ore dopo l’omicidio, ad un incontro fra lo stesso Jensen ed Egerman quattordici giorni prima del misfatto dove quest’ultimo confessa la volontà di uccidere la propria moglie per poi nascondersi nello studio dello psichiatra, attendere l’arrivo di Katarina, e ascoltarne la conversazione, dopodiché si va al dialogo fra la madre di Peter e l’investigatore una settimana dopo l’omicidio, fino al torpore delle notti insonni della coppia solo cinque giorni prima della tragedia e così via, attraverso una struttura narrativa sfalsata nello spazio temporale, didascalica, e che prende forma da prospettive sempre differenti.

 

Il rapporto tra Peter Egerman e sua moglie Katarina è burrascoso e scostante; lei sembra ingegnarsi ogni volta per ferirlo con maggior profitto e sembra altresì possedere un talento raro per questo genere di cose:

« In questi dieci anni di vita in comune mi hai procurato 822 orgasmi, 513 volte ho recitato e sono stata costretta a chiudermi in bagno e ad aiutarmi da sola. Ma in tutte le occasioni ho registrato un misero piccolo spasimo».

 

Lui sembra invece fluttuare nel nulla, appare sempre lontano ed estraneo, a se stesso come agli altri, solo le esplosioni di rabbia verso le continue provocazioni di Katarina sembrano scuoterlo talvolta. È pervaso da una noia abissale: «Una delle componenti tipiche della noia è il fatto che si prova generalmente una noia mortale quando si deve far comprendere a qualcuno che cosa è la noia».


Vivono una relazione aperta, entrambi si tradiscono vicendevolmente anche se tradire, come fa notare Egerman, non è forse la parola esatta per definire le loro libertà sessuali.
Non provano infatti alcuna gelosia e vivono senza particolari “implicazioni sentimentali”.
Eppure si amano, in modo morboso e viscerale. Lei racconta del suo legame indissolubile proprio a Jensen, mentre Peter è nascosto nel suo studio e li sta ascoltando:

«Con tutta la tua grande saggezza non hai ancora capito che amo mio marito»

«Non lo ami invece»

«Spesso, troppo spesso, ma questo non centra»

(...)

«Peter è una parte di me, non lo capisci, lo porto sempre con me, dovunque vado, ora è qui dentro, è una cosa che non ho provato con nessun altro, (...) questa è la ragione perchè litighiamo, piangiamo, ci picchiamo, nessuno di noi due vuole essere adulto, abbiamo una circolazione sanguinea comune, i nostri fasci nervosi sono cresciuti insieme per qualche oscuro motivo (...) voglio fissarlo finché lui non mi dirà che cosa ci impedisce di vederci a vicenda nonostante viviamo così strettamente insieme e sappiamo tutto l'uno dell’altro».

Un dialogo che racchiude emblematicamente una vicinanza endemica fra Peter e Katarine e al contempo descrive la loro incomunicabilità, l’incapacità di fondersi, il dramma di amarsi pur restando estranei.

 

La cosa più angosciosa è l’onnipresente irrimediabilità nella condizione di Peter.
C’è una frase che ripete come fosse il leitmotiv del film, lo dice rivolgendosi prima alla moglie, poi un’altra volta alla prostituta che finirà per uccidere: “Tutte le strade sono chiuse”.

C’è una tensione costante in Peter, una grande paura interiore che lo costringe a combattere l'insonnia con mix di psicofarmaci e alcol e al contempo di sfidare con queste alterazioni il sistema di controllo architettato con audacia dalla sua mente.
Peter non sembra mai manifestare calore umano, cordiale e gelido con tutti, eccetto che nei confronti della madre Cordelia, un’ex attrice che Katarina definisce come «un vecchio monumento diroccato di questo impero oppressivo fondato tanto tempo fa da tuo padre» disvelando una natura traumatica alla fonte dello sviluppo psichico di Peter e che, come lo psichiatra sancirà nell’atto conclusivo della pellicola, non trovando alcun sfogo nel suo contesto sociale, sfocerà nella nevrosi, fino al cortocircuito emotivo.

Peter è un figlio dell’alta borghesia tedesca, ricco, freddo, capace, che un giorno si accorge di aver generato un vuoto dentro di sé, di aver trascurato l’anima:

“Quelli come me si accorgono dell’anima soltanto quando gli duole”.

Questo vuoto non coinvolge però soltanto Peter, ma sembra coinvolgere tutti i personaggi del film, dal manipolatorio Jensen, lo psichiatra, al collega di Katarina, l’omosessuale Tim, che per un sentimento di gelosia nei suoi confronti combinerà l’incontro fatale fra Peter e la prostituta («Gli uomini deboli seguono vie stravaganti» dirà all’investigatore), ed è forse proprio Tim, con il suo struggente monologo davanti allo specchio “apro gli occhi e vedo soltanto un vecchio devastato” ad incarnare più di ogni altro il decadentismo borghese nel quale è immerso il protagonista e il vuoto esistenziale nel quale fluttuano i suoi personaggi.

E’ questo dunque l’humus nel quale si generano i presupposti della tragedia, un mondo gelido e decadente che sembra arrivato al capolinea, dove niente interessa più Peter, e dove persino le cene a casa di amici, che un tempo divertivano entrambi, sono diventate un tedio opprimente.

 

Così, è in questo vuoto che prende forma la pulsione omicida di Peter, una pulsione che si manifesta anche attraverso i sogni, sogni che si palesano più reali della quotidianità stessa e dove immagina di accarezzare Katarina, distesa e immobile, immerso in un biancore quasi accecante e privo di confini, poi si accorge prima di non riuscire a penetrarla né a comunicare con lei, poi di risvegliarsi dentro al sogno, accorgersi di averla uccisa in un modo terribile, prima di aver vissuto un momento estatico:

« Ma ci fu anche un momento di tenerezza, di completo silenzio, ed è difficile descrivere proprio questo momento, l’aria era cambiata, era divenuta più mite e leggera da respirare, la luce grigia era sparita lasciando il posto ad un alba morbida e soffusa che era come una mano amica che accarezzava i nostri corpi feriti ci incontrammo in un’improvvisa interiorità e senza riserve e qui sopravvenne qualcosa di orrendo».

 

Il sogno come disvelamento dei propri intenti profondi, l’atto di uccidere come rivelazione; ed è qui che emerge chiaramente la natura omicida di Peter nella sua interezza, ossia l’omicidio non come atto di sopraffazione, ma come qualcosa di rivelatorio, un atto di fusione con l’altro, di abbandono, di autenticità.

Quattro settimane dopo il delitto Jensen detta un primo sommario e palesa questa logica spietata. Secondo Jensen Peter ha subito l’influsso di una madre dominante e di un pessimo rapporto con il padre, a cui va aggiunta un'omosessualità latente e appena percepita che deve aver contribuito alla genesi della nevrosi.
Questa nevrosi ha però trovato un terreno fertile nel contesto sociale borghese nel quale Peter ha vissuto, un contesto dove, per usare le parole di Jensen: «ogni scoppio emotivo viene visto come qualcosa di vergognoso e osceno». Così Peter ha iniziato a trascurare i propri sentimenti (“quelli come ma si accorgono dell’anima soltanto quando gli duole”), la propria vera identità, per indossare una maschera più confacente al ruolo che l’ambiente circostante gli aveva assegnato. È qui che le parole di Peter appaiono ancora più drammatiche: «Per lo meno mi adeguo di più alla realtà che mi circonda».
L’annientamento come formula di sopravvivenza e di adattamento al sistema sociale a cui appartiene ed è qui che prende forma la critica feroce alla società borghese:
«Un senso del dovere molto sviluppato e un autodisciplina esercitata fin dall’infanzia, aventi come obiettivo un notevole successo sociale, hanno impedito al paziente uno sfogo naturale degli istinti».

In una società dove reprimere i propri istinti è la norma, l’omicidio diviene così un atto di liberazione.
La dipendenza da narcotici e alcool, accettata se non raccomandata in quel segmento sociale, offre un “modello sociale chiuso” e una valvola di sfogo sicura, tanto che Jensen afferma che nulla sarebbe accaduto se Peter fosse rimasto nel circolo vizioso del suo ambiente, mentre “la catastrofe avviene una volta che Peter lo abbandona.

«La ragazza viene uccisa in un momento di cortocircuito emotivo e in un momento probabilmente estatico Egerman compie l’atto sessuale con la morta».
Quando Jensen pronuncia le seguenti parole ecco che nella pellicola riaffiora di nuovo il colore.

«Solo colui che uccide possiede completamente, o meglio domina completamente. (...)

Secondo la stessa norma che ho appena formulato solo colui che si uccide possiede veramente se stesso».

 

Per Peter Egerman dunque, l’omicidio, nella sua brutalità, diventa così l’unica espressione di vita realmente conquistata e vissuta.

 

Il resto è un mondo di marionette

 

«Si è per sempre allontanato e per quanto lo si chiami non tornerà più indietro»



 

 

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