Regia di Robert Altman vedi scheda film
La cosa bella di questo film è che prende di mira non uno, ma due gandi tematiche relative agli USA di ieri e di oggi. Infatti, da una parte c'è la revisione del Mito della Frontiera, con i bianchi a fare la parte degli imperialisti e gli indiani a subirne impotenti l'arroganza; dall'altra però c'è anche la riflessione sarcastica sugli States visti come società dello spettacolo, capace di calamitare l'attenzione di milioni di ingenui cittadini. E si badi che Altman, da autore ambizioso quale era, non lascia separati i due nuclei tematici, in quanto rappresenta l'uno come riflesso e come strumento dell'altro: gli Stati Uniti sono stati forse il primo Paese a concepire lo spettacolo, i mass media, talora anche nelle forme più meschine del circo o della baracconata, come sistemi per trasmettere al popolo la versione ideologicamente distorta della propria Storia nazionale, al fine di raccogliere consensi diffusi e di edificare quel concetto filosofico plastificato che ha preso in nome di American Dream. Dal punto di vista stilistico, il film non ha la coralità degli altri Altman dell'epoca ed è focalizzato sul protagonista, ma lo sguardo distaccato, brechtiano, freddo, cinico, veicolato attraverso campi lunghi o piani americani, inquadrature in cui si ritrovano stipati (come nei film di Tati) esponenti di un'umanità alla deriva, cupe sedute di auto-analisi in cui Bill immagina di parlare con la sua eterna nemesi Toro Seduto e si ritrova a dover "subire" il suo ineluttabile silenzio, nonchè l'approccio generale all'insegna di un realismo così esasperato da sfiorare il grottesco, appartengono pienamente all'estetica del cineasta americano più sperimentale degli anni 70.
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