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Magnolia

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Magnolia

di Antisistema
7 stelle

Altman dei poveri o semplicemente omaggio non riuscito? Magnolia (1999) a distanza di oltre 20 anni dalla sua uscita, suscita ancora reazioni contrastanti, tra estimatori e detrattori, probabilmente hanno ragione entrambi, forse più i secondi a dire la verità, poichè Paul Thomas Anderson giunto al suo terzo film dopo il magnifico Boogie Nights - L'Altra Hollywood (1997), decide di mirare in ambizione ancora più in alto, oramai si considera un novello Orson Welles, girando una pellicola fluviale di oltre 3 ore di durata, con una narrazione di stampo corale, nel mettere in luce le devastanti contraddizione di Los Angeles e quindi di riflesso di tutta l'america, alla fine del secondo millennio, cercando il colpo grosso, tra una regia palesemente ispirata ai movimenti di macchina iper-virtuosi negli edifici, con costanti rotazioni attorno agli attori rubando "a bestia" le intuizioni tecniche di Martin Scorsese, sin dal prologo con tanto di voice over tipico del regista di New York, imbastendo una narrazione corale alla Robert Altman, sulla scia di America Oggi (1993), cercando un raffronto diretto, dal quale non può che uscirne perdente, visto che quest'ultimo era riuscito a gestire con mano sicura oltre il doppio delle linee narrative presenti in Magnolia, con una sceneggiatura, regia ed un montaggio dal ritmo semplicemente perfetto.
Paul Thomas Anderson sin dal titolo Magnolia, fiore che rimanda all'ideale di purezza, scava nel marcio delle vite di svariati personaggi della Los Angeles di fine millennio, tutti accumunati da un totale fallimento nei rapporti umani; tra un ricco magnante Earl (Jason Robards) divorato dal cancro, assistiti da infermieri come Phil (Philip Seymour Hoffman) e dalla moglie Linda (Julianne Moore) dipendente da farmaci, presentatori di Quiz per bambini come Jimmy (Philip Baker Hall), malato di tumore osseo portatori di segreti orribili nei confronti della moglie (Rose Melinda Dillon) e della figlia Claudia (Walters), agenti di polizia sopra le righe perchè devastati come Jim Kurring (John C. Reilly)  un padre ossessionato dal senso di vittoria proiettandolo nei confronti di figlio Stanley (Jeremy Blackman), al cui show assiste in TV da un bar l'appena licenziato Donnie Smith (William H. Mancy) ossessionato dalla sua igiene orale per fare colpo su altri, ed infine la star e guru della televisione Frank Mackey (Tom Cruise), che nonostante l'indole estroversa nei show su pratiche sessuali maschili, ha un legame inesistente nei confronti di suo padre, a causa dell'abbandono in passato, da parte di quest'ultimo, nei confronti della madre. 
La strada dell'imperfezione è segnata di netto, per cercare una possibile riconciliazione a fratture insanabili risalenti indietro nel tempo, oppure per segreti a lungo celati tanto da perdere la cognizione della realtà dei fatti accaduti dei vari avvenimenti; Paul Thomas Anderson, a differenza di Robert Altman, che non giudicava i suoi personaggi, poichè non si reputava in alcun modo migliore di loro, dà uno sguardo più empatico alle loro vite, cercando per forza di cose di ottenere una chiusura del cerchio con un insegnamento di fondo basato sul perdono, cercando così nel mare del pessimismo, una conciliazione francamente forzosa quanto accomodante alla luce di ciò che nelle oltre due ore e mezza precedenti è avvenuto, tutto questo non può che fare di Magnolia, uno dei film minori di Anderson, l'unico assieme probabilmente all'esordio Sydney (1996), di cui però mi manca la visione, anche se un'opera minore di tale regista, và sempre detto che vale come intere filmografie del 90% dei registi esistenti. 

 

Tom Cruise

Magnolia (1999): Tom Cruise


Magnolia per guadagnare in potenza, più che allo scheletro, avrebbe dovuto avrebbe dovuto mirare all'essenza vera di America Oggi, la cui potenza risiedeva in una visione della natura umana accettata da Altman come dato di fatto, senza esprimere giudizi o cercare delle conclusioni definitive, cosa fatta da Anderson con delle metafore di grana grossa come la pioggia di rane, cercando di darne un senso purificatorio-espiatorio alle colpe dei personaggi, andando contro le sue stesse tesi concettuali poste ad inizio del film, nonchè nella frase del quadro a casa di Claudia "but it did happen", volendo dare un senso compiuto all'irrazionale caos degli avvenimenti, rendendo così privo ancor più privo di significato il prologo iniziale, tra l'altro comunque gravato da una sensazione auto-masturbatoria eccessiva, la quale non viene di certo meno durante le fluviali tre ore di pellicola, pervase da un barocchismo auto-indulgente quanto a tratti troppo compiaciuto, sia a livello registico-stilistico, quanto nella scrittura, alla ricerca troppo spesso di numerosi climax drammatici, che aprono giustamente dei varchi ai detrattori nell'accusare l'opera di calcare troppo la mano sul dramma a tutti i costi, finendo nella retorica dell'anti-retorica, nonchè etichettature varie di opera vuota e pretenziosa, come quella affibbiatagli dal grande scrittore post-moderno David Forster Wallace, che probabilmente ci è andato giù troppo pesante, ma indubbiamente ha capito come il sottoscritto, il fatto che Magnolia risulti un netto passo indietro rispetto a Boogie Nights, nella quale la coralità dei personaggi era gestita molto meglio da una narrazione comunque tenuta dalla linearità dell'evoluzione cinema porno tra gli anni 70' ed 80', che guarda un pò, si sfilacciava leggermente proprio quando le linee narrative dei personaggi divergevano in alcune fasi del terzo atto in blocchi autonomi, difetto che Paul Thomas Anderson in Magnolia, non ha saputo tenere a bada, a cui va aggiunto l'aumentato egocentrismo di un regista, che proietta sè stesso nella debordante prova di un Tom Cruise, caricato a palla, come voler satirizzare il suo sex appeal da star, manca quel senso di unione tra alto e basso, che fece la fortuna artistica di quel capolavoro di Boogie Nights, quando qui invece cerca esclusivamente l'alto, mirando molto ad una costruzione soverchiante il tutto, a scapito della sincerità, che si ravvisa comunque nella riuscitissima sequenza della canzone collettiva Wise Up, dove i personaggi mettono a nudo la propria anima interiore lacerata, in cerca di una redenzione emozionale quanto sentita, cercando una via di fuga nell'interiorità del proprio sentimento, da una società chiusa in sè stessa, che non perdona nulla a nessuno.
Piani-sequenza a tutta forza, virtuosismi a rotta di collo, carrellate in avvicinamento ai volti e moltiplicazione dei punti di vista, sfruttando anche l'invasività della televisione commerciale di massa, che oramai a fine degli anni 90 aveva preso piede, mirando ad anestetizzare le persone innanzi agli schermi, ma alla fine di certo non lenisce il dolore, perchè possiamo lasciarci il passato alle spalle, ma quest'ultimo comunque tornerà sempre a bussare alla porta, che vogliamo tener chiusa, perchè incapaci di affrontarlo; probabilmente a Magnolia avrebbe giovato una durata minore (circa mezz'ora in meno) e dei cambiamenti nell'ultima ora finale, dove indubbiamente dopo la canzone Wise Up, il film finisce con l'avvitarsi troppo su sè stesso, alla ricerca di una sentenza definitiva e speranzosa, lo stesso regista che reputava l'opera come la migliore fatta a distanza di anni, sembra averne riconosciuti i difetti intrinsechi, dovuti probabilmente alla volontà di voler dire e fare troppo, senza la necessaria auto-disciplina, che nonostante tutto, nonostante i magri guadagni (48 milioni a fronte di un budget di 37), gli ha fruttato un Orso d'oro a Berlino, nonchè tre candidature agli oscar (miglior attore non protagonista per Tom Cruise, sceneggiatura e canzone per Save Me), alimentandone lo status di regista di culto, che però raggiungerà la sua vera maturità solamente dal Petroliere (2007) in poi. 

 

William H. Macy

Magnolia (1999): William H. Macy

 

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