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La collezionista

Regia di Eric Rohmer vedi scheda film

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La recensione su La collezionista

di Aquilant
8 stelle

Lo sguardo vorace della macchina da presa indugia sulle armoniose forme della ragazza, la scruta di sottecchi, insiste ad inquadrarle i piedi, le affusolate gambe nude, dilettandosi con rapide inquadrature ravvicinate a vivisezionarne l’intero corpo filiforme fino ai più minuscoli dettagli, in un ideale passaggio di testimone dalla carrierista Suzanne ad Haidée, collezionista sui generis in questo terzo racconto morale dotato come al solito, a giudicare dalle parole dello stesso autore, “di un’intenzione letteraria, di una trama romanzesca stabilita in precedenza, che potrebbe essere materia per un ulteriore sviluppo scritto.” A dire il vero Rohmer non esprime le cose che pensa né con parole né con immagini, preferendo mostrarci semplicemente “persone che agiscono e parlano”, come Adrien ad esempio, moralista di fondo dagli atteggiamenti da dandy, che si butta a capofitto in una agognata vacanza allo scopo di godere di uno stato di passività totale prossima al niente assoluto. O come Daniel, supponente presenza dalla lingua affilata come una lama e dalla presenza sempre sintonizzata sulla frequenza dell’imprevedibilità. La narrazione fa perno sull’instabilità dei rapporti individuali pilotati dalla capricciosità di un plot che si diverte a contrapporre a due individui legati da discordanti affinità elettive una sinuosa seduttrice priva di condizionamenti morali, pronta a graffiare al momento opportuno con le unghie affilate della sua passività destabilizzante ed a porsi come indesiderata interlocutrice nel rapporto dialettico tra le personalità dei suoi interlocutori, assurgendo tout court, come d’altronde ogni altra figura predominante di donna nei racconti morali, a simbolo di un trionfo dell’astuzia femminile nei confronti di sbiaditi esemplari di mascolinità più o meno frustrata. Caratterizzato come sempre da rigore compositivo e severità di contenuto, come sospeso in una sorta di spazio fluidificato a causa di una tensione puramente mentale che cresce e si spegne con la stessa rapidità del lampo, il film si guarda bene dal violentare più del dovuto la privacy di personaggi ineluttabilmente chiusi nei propri gusci, dai gesti apparentemente insignificanti, riluttanti a scoprire le loro carte segrete, intenti a recitare con premeditazione un ruolo tanto oscuro quanto velleitario. Rohmer riesce a creare un sottile gioco psicologico in cui le relazioni individuali restano sospese a mezz’aria tra parole non dette e comportamenti destinati a creare un fuorviante rapporto di complicità non ben definito. La scrittura filmica scruta lo sgambettamento interiore dei personaggi ponendo in evidenza gli equilibrismi esistenziali in un instancabile girotondo in cui ciascuno sembra recitare una parte precostituita onde disorientare lo spettatore, fortunatamente ragguagliato dai frequenti monologhi interiori di Adrien, che per tale motivo appare il più vulnerabile della compagnia ed il più riluttante a gustare l’amaro calice della sconfitta.


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