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Ciao ciao Birdie

Regia di George Sidney vedi scheda film

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La recensione su Ciao ciao Birdie

di spopola
6 stelle

Rivedere “Ciao Ciao Birdie” dopo tantissimo tempo (grazie al DVD recentemente editato) non è stato così piacevole e divertente come avevo immaginato. Prodotto decisamente non eccezionale anche al momento dell’uscita, è incontestabilmente “invecchiato male” e si avverte pesantemente il carico degli anni passati e dei mutamenti dei costumi, che gravano come macigni sulle sue spalle. Il musical ha fatto nel frattempo passi da gigante, è diventato “adulto”, ha acquisito persino la capacità di trasmettere (sempre e comunque, salvo rare eccezioni) emozioni più profondamente coinvolgenti, rappresentando storie meno epidermiche nei contenuti e di maggior spessore partecipativo di una volta, e “regalandoci” soluzioni visive più sofisticate e “convincenti”. Rimane quindi difficile il raffronto – anche con la necessaria mediazione culturale - con le ingenuità e i luoghi comuni elargiti a piene mani dalla pellicola, ed avallare la credibilità di personaggi così “tipicizzati” da risultare persino psicologicamente inattendibili. Davvero, “Ciao Ciao Birdie” sembra solo un pallido epigono persino degli spensierati, “pretestuosi” canovacci in musica del periodo d’oro, che ci ha elargito tanti stupefacenti gioielli (e anche Sidney – pur nella “povertà fittizia” dei soggetti che erano spesso la prerogativa di base di questi excursus danzerecci allora di moda, ha fatto davvero molto di meglio in questo settore, basta pensare a opere come “Due marinai e una ragazza”, “Anna prendi il fucile”, “Pal Joey” o “Show Boat”, regalandoci persino un capolavoro indimenticabile come “Baciami Kate”). E’ in effetti poca cosa l’esilissimo plot che “tenta” di incollare fra loro (malamente e con carenza di inventiva) i vari numeri, per altro scarsamente supportati e vivacizzati da una partitura musicale (anche questa) estremamente datata e poco incisiva, sicuramente gradevole ma non memorabile (con qualche buon momento, come la canzone che da il titolo al film e poco altro). Anche i balletti (che erano la cosa che più mi aveva affascinato quando avevo vent’anni o giù di lì) mi sono sembrati adesso deludentemente convenzionali, banalmente conformi e scarsamente “ispirati” (poco più che discreti insomma, compreso il celeberrimo “Put on a Happy Face” che - pur rimanendo certamente il più bel pezzo e l’unico che può pretendere di “confrontarsi” con la nostra contemporaneità - all’epoca era riuscito ad entusiasmare più di un critico, e continuava ad “infiammare” il ricordo del mio immaginario, mentre adesso deve invece fare i conti con più di una ruga che non riesce a nascondere). Strani scherzi gioca a volte la memoria la memoria con le sue suggestioni indotte… e pensare che ho inseguito per anni questo film, non particolarmente frequentato in Tv e – credo – non disponibile in cassetta, per la voglia sotterranea di potermi finalmente riconfrontare con la nostalgica “evocazione” di quel primo ed unico (e ormai lontanissimo) contatto “gonfio” di “rimpianti” scarsamente attutiti, mancando però sempre all’appuntamento – per una ragione o per un’altra (premonizione o “segno del destino”?) - le pochissime volte che è transitato in notturna sulle reti Mediaset. Quando fortuitamente ho intravisto le lunghe gambe di Ann-Margret sulla copertina di una scialba e anonima edizione dvd, l’eccitazione è stata grande (analoga per lo meno alla successiva delusione provata nel non riuscire nemmeno a “capire” adesso che cosa mi poteva aver così tanto colpito allora e nel non essere capace di “ritrovare” qualcosa, anche un semplice “riferimento”, di quel coinvolgimento giovanile che deve per forza aver contaminato il mio pensiero – chissà per quale imponderabile ragione - se il ricordo “emozionale” si ostinava a rimanere così vivido e immutato nel tempo). Tratto da un musical di successo particolarmente amato dagli adolescenti dell’epoca, ma che ha lasciato segni davvero poco significativi (“Broadway”), era probabilmente – e più semplicemente - il “prodotto giusto al momento giusto” che ben rappresentava (e per questo ne permetteva una identificazione assoluta e compiaciuta che il tempo ha poi dissolto) la “leggerezza” stupidina e poco problematica, ma densa di ardore giovanile, che si esaltava in passioni e miti musicali intrisi di fanatismo, per altro non sufficientemente destabilizzanti per riuscire davvero a “scardinare” i valori fondanti stabiliti dalla consuetudine e dalle “regole” della convenzione formalizzata e disciplinata. Quello che più stupisce adesso (e un poco infastidisce) è in effetti il contesto generale, così “bacchettone” e conformista da risultare mielosamente insopportabile e che diventa per questo stridente e anacronistico; è il “perbenismo bigotto” che impregna tutta l’opera, decisamente sbilanciata (e asservita) verso l’esaltazione di quei sani principi morali “difesi” e sostenuti a spada tratta da una ben precisa corrente di pensiero (o di osservanza religiosa che dir si voglia) che privilegia la famiglia codificata e puritana quale punto cardine di ogni dignità di rapporto… Il film (probabile specchio dell’epoca) è proprio questo (purtroppo) e poco altro, “buonista” e “rassicurante”, assolutamente non trasgressivo e – francamente – persino leggermente ridicolo (come le “argomentazioni” pretestuose che tentano di sorreggere e vivacizzare l’evoluzione delle storie raccontate). Davvero… troppa acqua è passata sotto i ponti, e ci sembra impossibile “immaginare” adesso l’esistenza di una visione così edulcorata delle cose, di un mondo che aveva certamente le caratteristiche qui evidenziate e una base fondante di ipocrisia fortemente accentuata (ma non solo, per fortuna), una realtà questa che viene in un certo senso “documentata” dall’interno, “colta nell’attimo”, capace però solo di riproporre i colori e gli umori, le cotonature, i ciuffi, le gonne larghe e le code di cavallo allora in auge, non certo la ribellione serpeggiante sottotraccia e il disadattamento costruttivo di una società in evoluzione (periodo ben più “criticamente” rivisitato, per esempio - per rimanere nel territorio del musical - da “Greese”, certamente una “analisi a posteriori” più che delle “virtù, dei “vizi” e dei tic di quegli anni, che mantenendo attiva l’ironia del distacco, riesce per lo meno a trasmettere una maggiore, divertita “irriverenza”). Indiscutibilmente comunque “Ciao Ciao Birdie” rappresenta un’occasione per comprendere quanta strada - nonostante tutto - sia stata percorsa verso l’emancipazione e la “liberazione” dei costumi, e che fornisce nel contempo anche la possibilità di “individuare” sotterranei e inaspettati paralleli comportamentali (per esempio nello smodato uso dei telefoni in giovane età - in era pre-cellulare – qui esemplarmente esemplificato in molte circostanze – e c’è persino un numero musicale dedicato all’argomento - che ci fa comprendere che, per lo meno su questo versante, le cose sono davvero poco cambiate, come pure nella “voglia” inarrestabile e prepotente – che rende disponibili ad ogni compromesso - di apparire in televisione comunque e ad ogni costo). Ma è sufficiente “solo” questo? A mio avviso purtroppo no, e la causa principale va ricercata proprio nel perbenismo reazionario che trasuda da ogni situazione, oltre che da dialoghi “inaccettabilmente anacronistici”, quasi “irrazionali” da quanto risultano ovvi e che rappresentano la summa di una paccottiglia moralisticheggiante e vetusta che potrebbe venire adesso persino “scambiata” (o contrabbandata) per uno spot propagandistico di sostegno alla “campagna” restauratrice in atto, giornalmente e pervicacemente portata avanti dal Cardinal Ruini e da tutti gli altri apparati Vaticani, stampa compresa, a favore dei valori fondanti del matrimonio e della “famiglia tradizionalmente intesa” (Littizzetto aiutaci tu!!!!!). La trama racconta due storie parallele e intersecate, quella di un compositore di canzoni “mammone” e senza talento e della sua intraprendente e “secolare” fidanzata, intrecciata con quella di Conrand Birdie, cantante rock e idolo delle ragazzine, richiamato alle armi per il servizio militare, avvenimento nefasto che crea lo scompiglio fra le sue fans (tutte teen-agers in odore di “vedovanza prematura”). Viene quindi deciso di organizzare un concerto di commiato nell’Ed Sullivan show nel corso della quale la fortunata vincitrice di un concorso appositamente indetto, riceverà simbolicamente un bacio di addio dall’idolo incontrastato e venerato. Ma i conti sono stati fatti senza l’oste… e ci sarà un ragazzo geloso e intraprendente, un padre irritato e nevrotico, un paese che non accetta intrusioni disturbanti, un ragazzino patito della chimica, una madre possessiva e asfissiante, un balletto russo che rischia di debordare nei tempi, che, fra equivoci e “invenzioni” (anche letteralmente) finiranno inevitabilmente per rompere le uova nel paniere determinando non poche situazioni di disagio che vorrebbero risultare persino divertenti, per approdare poi a un finale rassicurante che vede ricomporsi ogni divergenza e pianificata ogni difficoltà, preludio inevitabile per la “santificazione” dei sentimenti contrapposti nella sacralità del matrimonio. Niente da evidenziare sotto il profilo della regia, scorrevole nei ritmi, ma opaca. Non di particolare rilievo nemmeno la resa recitativa degli interpreti, dove fra una miriade di “promettenti” promesse successivamente non confermate, spicca la carica sexy di Ann-Margret qui “sacrificata” nelle vesti troppo strette e “castigate” di una adolescenza inquieta, ma capace ugualmente di “risvegliare” sogni proibiti e “peccaminosi” in più di una circostanza (attrice in ascesa importata dall’Europa, che Hollywood tentava di imporre per rinverdire il mito ormai al tramonto dell’atomica Rita Hayworth) supportata da un simpatico e divertente Dick Van Dyke, da una non più giovanissima (forse sarebbe più appropriato definirla “non più di primissimo pelo”) ma ancora prestante e dinamica Janeth Leigh dalla capigliatura insolitamente corvina ( protagonista scattante e agile del balletto più virtuosisticamente acrobatico e più compitamente creativo) e, fra i tanti caratteristi di rango che incarnano con la consueta istrionica inventiva i ruoli minori e di contorno, una ancor giovane Maureen Stampleton (quasi coetanea della Leigh anagraficamente parlando) singolarmente relegata per le convenzionalità derivantidalle sue caratteristiche fisiche un po’ appesantite, nel ruolo della attempata madre del protagonista (ma i capelli brizzolati e le acconciature non risultano essere “camuffamenti”sufficienti per contrabbandare l’età avanzata, assolutamente tradita dalla prosperosa e levigata freschezza della pelle del volto. Un’ultima osservazione che riguarda proprio il dvd: rispettati colori e il formato, disponibile la versione originale e i sottotitoli… ma niente extra come spesso succede per questi reperti d’epoca (ed è davvero un peccato). La fascetta di copertina riporta (ed è un contributo non indifferente, anche se riferito solo alle “voci” italiane di Van Dyke e della Leigh,) persino il nome dei doppiatori, indicando anche, per il regista e i quattro interpreti principali, due altri titoli significativi del “percorso artistico” di ciascuno di loro (per la verità la “scelta” poteva essere più accurata e “intelligente”) incorrendo però in un imperdonabile “rovescione” che grida vendetta, quando attribuisce a Janeth Leigh la partecipazione a “Ogni maledetta domenica” (che è invece “appannaggio” di Ann-Margret) e assegna a quest’ultima, “Mia sorella Evelina”, titolo indiscutibilmente “di proprietà” della Leigh, visto che era proprio lei la titolare del ruolo del titolo… cose che capitano, si dirà, sviste inevitabili alle quali dovremo abituarci, farci il callo, ma io non riesco davvero a rassegnarmi a simili strafalcioni che sono il segnale inequivocabile di una imperdonabile superficialità che fa trasparire incompetenza e approssimazione inaccettabili.

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