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Dogman

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Dogman

di supadany
7 stelle

Essere considerati buoni non porta sempre i frutti che una reputazione del genere meriterebbe. Anzi, passare per stupidi, banderuole da manipolare senza alcun rispetto e credito, è un passo troppo spesso consequenziale che, una volta instaurato, pone in una situazione di sudditanza, dalla quale è praticamente impossibile destreggiarsi.

In ogni caso, esiste un punto di non ritorno, una linea invisibile che si presenta senza preavviso. D’altronde la prepotenza, oltre che abbietta, è cieca, mentre il vessato non può sopportare all’infinito e quanto accumulato può esplodere senza dare segni premonitori e decifrabili.

Marcello (Marcello Fonte) è un uomo pacato, completamente assorbito dalla sua attività di toelettatura per cani e dalla giovanissima figlia. Simoncino (Edoardo Pesce) è un ex pugile, un relitto umano fuori controllo, vero spauracchio dell’intero quartiere, con una particolare predisposizione per importunare il povero Marcello che, dal canto suo, tenta di evitare i problemi peggiori, facendo buon viso a cattivo gioco.

Dopo un evento traumatico che coinvolge entrambi, Marcello vuole ottenere da Simoncino ciò che gli è dovuto. Quando come risposta trova una porta chiusa, non può più fare finta di niente. Il tempo della pazienza e del compromesso è esaurito.

 

Marcello Fonte

Dogman (2018): Marcello Fonte

 

Con l’exploit di Gomorra, il nome di Matteo Garrone è diventato gettonato, ma il regista romano, invece di accomodarsi su progetti sicuri, è tornato caparbiamente su traiettorie dai dividendi più incerti, così come lo erano i precedenti L’imbalsamatore e Primo amore. Dopo l’ossessione da show televisivo di Reality e il fantasy d’autore Il racconto dei racconti, con Dogman entra nell’ambito della cronaca nera – e vera – che spopola su qualsiasi media e recupera un fatto sconvolgente radicato nel passato per trattarlo a modo suo, eludendo quelle conditio sine qua non che prevedono la fascinazione delle immagini, di quanto reclamato morbosamente dal pubblico.

Prima di tutto, crea uno scenario alternativo per il cinema italiano, con location e scenografie da western di periferia, un non luogo mai bonificato e abitato da vite miserrime, sul quale apparecchia un lungo duetto tra un cuore puro e un bullo, un mite e un bruto, un mingherlino indifeso e un gigante arrogante, una vittima designata e un carnefice senza coscienza alcuna.

Senza un’elaborata costruzione narrativa alle spalle e libero da griglie precostituite, Dogman è completamente poggiato su questi due personaggi, con la soggettiva perennemente ancorata su Marcello, la proiezione che detta ogni vettore.

Un cane sciolto che contiene varie anime, specchio di una società disidratata, continuamente minato ma non disposto ad alzare le braccia in segno di resa, con una dolcezza fuor di convenienza che lo spinge a piccoli gesti inconsulti, un Buster Keaton moderno (citazione del regista). Un ruolo dolente che vale un film (e un incredibile premio a Cannes 2018), grazie anche all’interpretazione estranea a qualsiasi metodo e naturale di Marcello Fonte - una grande intuizione di Matteo Garrone che l’ha pescato dal nulla – un uomo con gli occhi di chi avrebbe bisogno di poco per sognare, propri di chi ragiona su una lunghezza d’onda non comunemente rintracciabile.     

Un plauso va destinato anche alla controparte ruvida, massiccia e privata di un qualunque cenno di emozione, disegnata da Edoardo Pesce, mentre il contorno è avvalorato dai volti caratteristici e pregnanti di Francesco Acquaroli (Rocco Schiavone), Mirko Frezza (Il più grande sogno) e Adamo Dionisi (Suburra).

 

Marcello Fonte

Dogman (2018): Marcello Fonte

  

Riprendendo ciò che piace al pubblico per poi creare una distanza incolmabile con il potenziale fruitore, Dogman rientra appieno nella poetica garroniana, forte dell’incontro tra realismo e scaglie di surreale (emblematico il finale, che crea uno scarto in costante allargamento con lo spunto di cronaca), con un’inconsueta atmosfera metafisica, compiuta nel consentire il racconto d’ingiustizie insopportabili, nella manifestazione della gioia di fronte alle piccole soddisfazioni quotidiane e nella rappresentazione di rifiuti umani e umani rifiutati, senza finire inscatolato in paradigmi facilmente etichettabili.

Senza calcoli, al di fuori della facile omologazione, in poche parole segnato da una personalità cristallina.

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