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A Special Lady

Regia di Lee An-kyu vedi scheda film

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La recensione su A Special Lady

di supadany
5 stelle

Far East Film Festival 20 – Udine.

Per fare carriera una donna deve superare tanti scogli, non sempre legati a un semplice percorso formativo, ma anche quando raggiunge la meta prefissata, possono ancora sopraggiungere nuovi ostacoli.

Se poi di parla di un’attività malavitosa, con personaggi che non ci pensano due volte a eliminare dal giro un qualsiasi soggetto considerato scomodo, e c’è pure uno scheletro nell’armadio, allora occorre obbligatoriamente fare ricorso a ogni scampolo di energia e avere pure un po’ di fortuna. Una cosa comunque è chiara: quando si combatte per qualcosa di importante, si parte avvantaggiati.    

Grazie a un lungo percorso criminale di fedeltà e determinazione, Hyun-jung (Kim Hye-su) ha raggiunto una carica di primo livello all’interno dell’organizzazione per cui lavora.

Quando scoppierà una faida con un gruppo rivale, non potrà semplicemente guardarsi dai nemici, complice un segreto custodito da tanti anni che, una volta venuto a galla, la obbligherà a non pensare esclusivamente a se stessa.

 

Kim Hye-soo

A Special Lady (2017): Kim Hye-soo

 

In un periodo di rivendicazioni globali sulla posizione subordinata delle donne, si è spalacato lo spazio ideale per individuare una nuova eroina noir, anche solo come implicito spot pubblicitario.

Prova ad approfittarne il regista sudcoreano Lee An-Kyu (all’attivo il ruolo di assistente alla regia in Il buono, il matto, il cattivo), che alla sua biondissima, atletica e furiosa protagonista dedica la passerella in mezzo a uno scenario di violenza secca e animalesca, una società degli uomini animata da torture ed estorsioni, ricatti e scalate al potere a suon di omicidi.

Indubbiamente, il personaggio emerge, non tanto per una questione fisica e caratteriale (è la donna forte accerchiata da alcune pecorelle smarrite) che la distanzia dal resto dei presenti, quanto per l’essere praticamente l’unico delineato con attenzione.

Peraltro, discettando di oculatezza, si rientra in un problema generalizzato su tutti i fronti del plot, che per evidente mossa voluta dall’alto vuole scarnificare la polpa narrativa attorno all’osso, anche con il fine di rendere l’esecuzione fibrillante, tenendo un minutaggio molto noir (siamo in area novanta minuti).

La frittata si può rigirare in tanti modi, ma non sono comunque ammissibili delle scusanti, nel momento in cui sbucano dal nulla rivelazioni scottanti senza che nemmeno in seconda battuta siano apportati dei correttivi (si potrebbe anche aggiungere che in alcuni casi c’era poco da mettersi a rimuginare), di conseguenza l’architrave a sostegno della baracca è strettamente correlata al violento congegno action.

Da qui, soprattutto nell’ultimo atto, abbiamo un partecipato combattimento, soluzioni macabre e rudi esplosioni di aggressività, un assembramento solleticante che tappa solo qualche falla, senza riuscire a resettare la memoria.

Come esclama la protagonista, non bisognerebbe mai voltarsi indietro, ma a Lee An-Kyu forse sarebbe convenuto. Giusto per farsi almeno un paio di calcoli.      

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