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Smoke

Regia di Wayne Wang vedi scheda film

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La recensione su Smoke

di MarioC
9 stelle

It's such a sad old feeling The fields are soft and green It's memories that I'm stealing But you're innocent when you dream When you dream You're innocent when you dream (Tom Waits - Innocent when you dream)

Cominciamo dalla fine, da Tom Waits che intona, con la sua voce di carta abrasiva, Innocent when you dream, mentre sullo schermo impazzano le immagini in bianco e nero del Racconto di Natale di Auggie. Degna conclusione di un film che incastona parole ed eleva la noia del quotidiano a poesia dei giorni che furono, sono e verranno. L’evoluzione per immagini e versi cantati di una bontà suburbana, della piccola meschinità capace di trasformarsi, senza un vero perché, in ottima azione e momento di tenerezza, la modesta legge del taglione che rende fungibili, nel furto, un paio di giornaletti porno ed una macchina fotografica. Quella macchina fotografica che si renderà protagonista di una delle tante storie nella storia, di uno dei momenti di maggior commozione dell’opera, perché Smoke è questo: un piccolo saggio sulla bellezza nascosta tra le volute di fumo di una umanità che si immalinconisce in girotondi sul proprio ombelico e che pure ha la forza di innumerevoli scatti vitali, alla ricerca di qualcosa che si è perduto o si teme non essersi mai manifestata (la foto alla stessa ora, nello stesso punto, come dado lanciato nell’aria del possibile, dell’epifania che si attarda, dell’universo molto restio a farsi abbracciare, grande, grosso e inconoscibile come è).

 

 

E’ film di scrittura, Smoke, e di scrittura di livello sopraffino. Del resto Paul Auster è autore di vaglia, appartenente ad una generazione di americani che hanno cambiato dal di dentro le regole d’ingaggio del realismo e della metafora (un po’ prima del fenomeno David Foster Wallace, ma in parallelo ai cantori di un’America in perenne credito di riconoscibilità, quali ad esempio De Lillo). Ed Auster scrisse la sceneggiatura di Smoke, con certosina applicazione ed attenzione, limitando al minimo le pericolosissime scorie della piacioneria e dell’effettaccio (appena riscontrabili nella scena della scoperta della paternità, comunque impreziosita dalla recitazione di un maestoso Forrest Whitaker, in stato di grazia come tutti i protagonisti/complici di questa elegante e malinconica follia parlata) e applicando la propria arte oratoria e di rappresentazione alla costruzione di un microcosmo urbano di gente che va e viene, vivacchia, fa i conti con il passato e guarda atterrito il futuro, scopre che i cassetti di ciò che si è fatto non possono mai essere definitivamente chiusi, percorre nuove strade e nuovi sogni, per poi ritrovarsi nel cuore e polmone della propria esistenza: una tabaccheria centrale, gestita da un uomo dalla faccia lisa e smagata, dal cuore d’oro, dai saldi principi, dagli improvvisi slanci di tenerezza ed ira, che ha raggiunto la consapevolezza che la vita può essere bella anche solo a vederla passare, ad immaginarla diversa, a saper in essa cogliere gli invisibili segnali della alterità (ancora le foto, cornice dell’anima a facce di sconosciuti, clessidra che fa in modo che il tempo passi all’angolo di quella strada e sia costretto a fermarsi, di fronte ad un semaforo che il flash rende eternamente rosso).

 

 

E Smoke è film di attori, naturalmente, mai così in parte, inseriti in un meccanismo di mai così alta orologeria, nella baraonda organizzata di personaggi sbozzati con evidente amore e totale capacità di fascinazione. Non si era mai visto prima un William Hurt in camicia aperta, maglietta bagnata e pantaloni lunghi oltre il limite che, abdicando alla propria carineria da Brivido caldo, incarnasse così perfettamente la figura un po’ ieratica un po’ ironica (ma di quella ironia che è parente non troppo lontana della disperazione e della solitudine) dello scrittore in crisi creativa ed esistenziale. Per tacere di Harvey Keitel che, con il suo tabaccaio Auggie, raggiunge il perfetto punto di equilibrio tra una faccia da cattivo ed una dignità di comportamento a tratti quasi british. E poi il già citato Forrest Whitaker ed il suo metafisico hook (“Con questo Dio ha voluto ricordarmi quanto sono cattivo ed egoista”), Stockard Channing con benda nera da pirata (la fiamma del buon Auggie che forse lo inganna, forse no; ma il sentimento che corre ondivago tra i due è una delle tante cose belle del film), una giovanissima Ashley Judd, i cui due minuti in scena sono un bignami di insulti, anche essi figli, guarda un po’, della tristezza.

 

 

Nel suo procedere a tratti, senza ancorare il copione ad una effettiva storia ed ai suoi sviluppi, ma piuttosto lasciando che quegli abbozzi di episodi si disperdano e frammentino in schegge e rivoli di quotidianità, e nella continua interazione tra i vari personaggi, tutti (come ricordato) effettivi satelliti della reale protagonista (la tabaccheria, che sembra quasi svolgere il ruolo teatrale di suggeritrice di parole e comportamenti, nonché il compito di riportare ogni cosa al suo posto), Smoke intenerisce ed incuriosisce, avvince con la forza del verbo (sporco il giusto, contaminato dalla icastica volgarità della vita) e commuove con le improvvise derapate di una filosofia comunque incapace di qualsiasi corrività. Ascoltare per credere il racconto (peraltro presente anche in un’opera letteraria di Auster) dell'uomo che scopre, in modo traumatico e però poetico, che il padre è diventato suo figlio. Bellissimo (il racconto ed il film).

 

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