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Hiroshima, mon amour

Regia di Alain Resnais vedi scheda film

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La recensione su Hiroshima, mon amour

di darkglobe
10 stelle

Un'opera che ha cambiato profondamente il modo di fare cinema, letteraria eppure cinematografica fino al midollo.

Una donna francese si ritrova ad Hiroshima per girare un documentario sulla pace. Incontra per caso un architetto giapponese che diventa suo amante per due giorni. Lui e lei sono entrambi sposati e provengono da esperienze matrimoniali all’apparenza felici. Gli orrori di Hiroshima, subiti anche dai parenti di lui, si ricollegano agli orrori dell’inquieto passato di lei a Nevers.

A interpretare il ruolo dei due amanti sono Emmanuelle Riva, attrice teatrale che fece con Hiroshima il suo esordio nel mondo del cinema, scelta da Resnais in quanto colpito dalla sua recitazione particolare nell'Espoir di Bernstein e dalla sua voce (in questa logica di selezione degli attori c’è tanto gusto alla Rohmer), ed Eiji Okada, notato in precedenza da Resnais in un film giapponese.

Hiroshima mon amour esordì più di mezzo secolo fa al Festival di Cannes in una sezione collaterale per timore delle reazioni della critica statunitense ed è un’opera che offre differenti piani di lettura; non dunque un film a tesi ma un lavoro su cui si intrecciano da un lato temi di carattere morale, sociale, politico e storico o che sono un riferimento a valori universali di pace e uguaglianza tra popoli, dall’altro aspetti più propriamente formali o cinematografici per certi versi innovativi. Fu anche e soprattutto grazie a questo film che il cinema acquisì definitivamente dignità autonoma e paritaria rispetto ad altre forme di espressione artistica.

 

Hiroshima mon amour si apre con una scena iniziale che contrappone la cenere su due corpi abbracciati (il dolore e la dissoluzione fisica), alla pelle linda di due amanti che intrecciano analoghi corpi, le mani di lei che affondano le dita nelle spalle di lui (il “languore” e la "dolcezza" della loro unione). La cenere non è però ricerca di una qualche forma di realismo, ma una espressione poetica sull’aleatorietà della vita. Elemento che chiarisce fin dall’inizio come il film non sia da intendersi quale monumento funebre ai morti del Giappone, quanto piuttosto un inno alla vita stessa: il senso di morte percepito in Giappone, affermerà Resnais, ha come naturale reazione non la chiusura sul proprio lutto ma un forte desiderio di riapprorpiazione del proprio vivere.

Il tema dominante e di prima evidenza nel film è quello dell'orrore della guerra. La guerra vista nel suo insieme appare come un macrocosmo indistinto e pauroso di violenze e perdite umane ma i suoi effetti squassano irreparabilmente il microcosmo morale e materiale della vita di ciascun individuo. La protagonista un tempo era una giovane ragazza che aveva amato in maniera totalizzante un militare tedesco - forse un potenziale disertore - durante l’occupazione; questo amore, vissuto a Nevers, veniva brutalmente interrotto da una fucilata contro l’amante, poco prima che lei dovesse incontrarlo per fuggire insieme, con conseguenze umane devastanti per la sventurata ragazza.

Non hai visto niente, a Hiroshima. Niente.

Ho visto tutto.Tutto.
La mostruosità iniziale delle scarrellate sulle vittime di Hiroshima, tanto documentaristiche quanto per certi versi inguardabili oltre che accompagnate da parole tremende che sembrano recitare l'orrore più che mostrarlo (“ho visto il ferro vulnerabile come la carne, fiori mostruosi, pietre esplose, capigliature anonime che le donne raccoglievano intere di mattina”) - dunque il dramma collettivo - non ha nulla di umanamente diverso, se si osservano gli eventi nella prospettiva dell’eliminazione fisica, da ciò che accade al militare - ovvero il dramma individuale -. Il dolore dell’interruzione diviene così anch’esso un male irrecuperabile, insanabile, perché "ogni dolore è incommensurabile" (Resnais). Come se non bastasse alla sofferenza per quel distacco segue l’umiliante e vergognosa storia della giovane additata, rasata, prima chiusa in casa e poi segregata ripetutamente in cantina dai genitori che la lasciano passare per morta: un accanimento disumano che ha l’effetto di infliggerle ulteriore dolore, quasi a prolungare in maniera spietata la sofferenza derivante dall’omicidio del proprio amante; una sorta di punizione per il suo tentativo di rivolta e opposizione al gretto ambiente che la circonda, ma anche alla propria famiglia che ha disonorato agli occhi degli altri abitanti. Questi elementi tendono a generare nel pubblico un sentimento di pietà verso la donna, pur nelle contraddizioni delle vicende della guerra e dell’occupazione militare, innescando un giudizio che, trascendendo i fatti, non può che rappresentare una severa condanna delle brutalità fisiche e psicologiche di cui è capace l’essere umano.

Al tema della guerra si accompagna una seria e tormentata riflessione sull'oblio, sul suo dominio rispetto al ricordo. L’oblio (il senso di abbandono del pensiero) è ciò che aiuta a lenire lentamente il dolore, a sopravvivere (“Bisogna evitare di pensare a tutte le difficoltà del mondo altrimenti il mondo sarebbe irrespirabile”); esso va dunque inteso necessariamente come costruzione, indispensabile, sul piano individuale e su quello collettivo, per agire superando la disperazione, l’inazione, il ripiegamento sul proprio dolore. Ma lo stesso oblio sconvolge gli esseri umani quando ci si rende conto che ciò che si riteneva eterno, incrollabile - l'amore ad esempio (“Come in amore l’illusione esiste, l’illusione di non poter mai dimenticare”) - appare in realtà meno duraturo di quanto si fantasticava potesse essere e tende inesorabilmente ad affievolirsi (“Tremo per aver dimenticato tanto amore“, “Ho lottato contro l’oblio, ho desiderato una memoria inconsolabile”) nella progressiva evanescenza dei ricordi (la dimenticanza).

Eppure la cancellazione del ricordo è anche ciò che fa dimenticare gli abomini compiuti dall'essere umano e consente che periodicamente possano essere ripetuti gli stessi errori - quasi un'ossessione per Resnais - facendo a meno, con incolta e stolida presunzione, dei drammatici insegnamenti della storia. È la stessa protagonista ad affermare che in futuro quanto avvenuto ad Hiroshima accadrà di nuovo (“So anche che si ripeterà, tutto ciò si ripeterà”), un riproporsi della barbarie, secondo il principio filosofico di corsi e ricorsi.

Aspetto tanto rilevante quanto mai sufficientemente sottolineato in Hiroshima è la raffigurazione del processo di conoscenza interpersonale tra i due amanti: farsi raccontare vicissitudini, pensieri e sentimenti che sono parte della vita e della intimità dell’altra persona è a tutti gli effetti un moto volutamente finalizzato a condurre progressivamente l’altra persona a sé, facendo proprie quelle esperienze, in un atto di conoscenza che assume via via il carattere dell’esclusività. Lui corteggia fin dall’inizio lei in un modo assai romantico ("Sei come 1000 donne insieme") mentre assimila, accumula e si riempie del complesso vissuto di lei a Nevers, perché intuisce che a Nevers ha corso il rischio di perderla. Questa acquisizione avviene in un instancabile peregrinare che all’apparenza pare non approdi a nulla, ma nel quale sembra, soprattutto durante la notte interminabile di Hiroshima, quasi di assistere ad una lunga seduta di psicoterapia, "una ricerca esistenziale dentro lo spazio e il tempo della memoria" (Giandomenico Curi) che diventa presa di coscienza. Del resto proprio la componente liberatoria di una conoscenza che nasce dalla consapevolezza della limitata durata dell’incontro fortuito (l’attrice dovrebbe ripartire a breve per la Francia) consente alla protagonista di esprimersi senza filtri e tirar fuori tutta se stessa, recuperando progressivamente le dolorose vicende sopite del proprio passato, sepolto dalla quotidianità della sua vita matrimoniale, una vita che la ha però aiutata in qualche modo ad accantonare quello stesso passato.
L’immensa solitudine vissuta dalla protagonista, il suo silenzio affettivo, nonostante negli anni successivi alla morte del soldato sia passata dalla “follia” alla normalità apparente di detta quotidianità, si legge nelle poche e semplici parole con le quali si rivolge ad un certo punto all’amante abbandonandosi tra le sue braccia: “com’è bello a volte avere qualcuno”.

 

A tal proposito va sottolineata, caratteristica cinematograficamente rilevante, l’importanza assunta dal ruolo femminile, quale elemento cardine della sceneggiatura. Mai era avvenuto prima di allora che il ruolo principale fosse impersonato da una donna totalmente protagonista di sé e del suo essere: determinata, pensante, raziocinante eppure viscerale, ebbra di passione e non priva di ambiguità o ingenui slanci emotivi, con gli occhi a tratti persi nel vuoto dei propri ricordi. L'amante giapponese, per quanti sforzi faccia, ne è a rimorchio, nel suo affannoso rincorrerla durante i cinque movimenti topici del film: nell’hotel New Hiroshima, alla manifestazione pacifista dove stanno quasi per perdersi, alla casa di lui assente la moglie, nella Tea Room, infine al Casablanca (un vezzo di citazione ironica).

Genesi del film assai particolare: inizialmente la piccola Argos, la Como Film, la Pathé Overseas e la major nipponica Daiei commissionano ad Alain Resnais un documentario di un’ora sul tema della devastazione atomica a Hiroshima. Resnais prova a coinvoltere Chris Marker, con cui aveva girato lo splendido documentario anticolonialista Anche le statue muoiono, ma abbandona ben presto il progetto perché si rende conto che nulla avrebbe potuto aggiungere alla sterminata produzione già esistente sul tema. Marker stesso si defila e Rensais, avendo già ricevuto un consistente finanziamento dalla Daiei, converte il progetto verso una storia romanzata. Non è un caso che per la stesura della sceneggiatura Resnais pretenda dal produttore che il testo da cui partire sia realizzato da una scrittrice, scegliendo alla fine Marguerite Duras, protagonista della corrente letteraria Nouveau Roman, i cui lavori il regista ha già apprezzato a teatro. Alla Duras chiede di non sviluppare un testo che sia letterariamente depotenziato da una soluzione prettamente cinematografica, ma una storia d’amore ambientata ad Hiroshima, dunque con la bomba atomica che faccia semplicemente da sfondo, in cui il passato diventi presente lungo tutta la narrazione ed a cui le immagini facciano da contrappunto. L’elemento letterario nel film è talmente evidente che quest'opera fu detestata da chi guardava all'epoca con occhio sprezzante al cinema, considerando la scrittura un'arte superiore. Eppure in Hiroshima mon amour le due componenti, letteraria e cinematografica, si mischiano in maniera indissolubile, rendendo per certi versi molto difficile riconoscere cosa in questo film sia cinema e cosa prosa. Questa scelta consente di lasciare volontariamente allo spettatore il suo margine d’immaginazione, proprio come se stesse leggendo un racconto: non si sa se il soldato sia un obiettore, se l’amante sia un attivista di sinistra, se lei rimarrà col suo amante anche se “si può ragionevolmente dire che non si vive un’esperienza così intensa se non si è coscienti che vi sarà molto velocemente una rottura” (ancora Resnais) ovvero che per questo motivo la separazione non sia una conseguenza del fatto che lui e lei siano entrambi sposati.

 

Nei primi 15 minuti del film, quelli a carattere documentaristico, Resnais monta insieme, dando al tutto pari dignità, quanto di più eterogeneo possa esistere, da metraggi amatoriali a filmati degli orrori documentati nei primi giorni successivi all'esplosione nucleare (tra i quali Genbaku no Ko di Kaneto Shindo), da scene ricostruite fino a riprese di reperti e foto presenti nel museo della memoria, il tutto in maniera quasi contrastiva con la bellezza dei due corpi avvinghiati. Pare quasi una ammissione dell'impossibilità di far documentario se non quale sfondo alla costruzione più letteraria del film. L'opposizione tra il bello e l'orrore viene poi riproposta in una scena durante il corteo pacifista, dove ai due amanti viene anteposta l'immagine di un giovane ustionato, perché il dolore ed il male continuano ad aleggiare tanto in quei luoghi quanto  in ogni momento di felicità umana.


Dal punto di vista formale il primo aspetto destrutturante di Hiroshima mon amour è l’abbandono del classico archetipo filmico fatto di fase introduttiva, crisi e disvelamento: qui si parte direttamente dalla crisi, dal fatto in sé e non vi sono trucchi narrativi volti a catturare l’attenzione dello spettatore o a prevenire la noia. Hiroshima è nei fatti il primo film nella storia del cinema costruito su una sorta di frammentazione della struttura narrativa, per l’ampio ricorso all’uso del flashback, scelta inimmaginabile all'epoca e che oggi appare invece quasi una consuetudine espressiva.

L’elemento narrativo viene temporalmente e logicamente smantellato e col montaggio Resnais lavora registicamente su una sorta di unificazione spazio-temporale che consente tra l’altro di rappresentare il flusso di coscienza della protagonista. Lo sforzo di scomposizione e ricomposizione, quasi si tratti di una partitura musicale in cerca di armonie, è tale che l’oblio cede il passo al ricordo, tra visioni confuse, rigurgiti di memoria, sprazzi umorali, sentimenti in riemersione, confessioni della propria “moralità dubbiosa”, elementi che assimilano le immagini del presente a quelle del passato, tant’è che i due amanti della donna sembrano progressivamente collassare in un'unica figura, accrescendo l’effetto di continuità emotiva. Il passato non rappresenta allora tanto qualcosa che è stato, ma qualcosa che è, sopravvive e si conserva in sé, e che coesiste con se stesso come presente (Katia Rossi).
Le mani appaiono oggetto di legame temporale, comunicativo e affettivo impressionante: la mano del soldato colpito a morte come quella del giapponese che dorme; la mano insanguinata di lei che scava sulle pareti della cantina che è stessa che si avvinghia a lui con analoga energia ma sentimenti oscillanti tra il possessivo e il bisogno d'aiuto; le mani dei due amanti che si incrociano affettuosamente per sostenersi vicendevolmente; la mano di lui che accarezza amorevolmente e ripetutamente il viso di lei che è la stessa mano che la schiaffeggia per risvegliarla dal suo stato di trance onirica.

Desta un certo interesse la soluzione del doppio responsabile della fotografia per filmare a Nevers ed Hiroshima, prima di allora lo aveva fatto Josef von Sternberg con L'isola della donna contesa: in Giappone c’è Michio Takahashi, in Francia Sacha Vierny. Quest’ultimo ricorre a focali lunghe, con il preciso scopo di segnare il distacco temporale, aumentare il senso di attesa e rallentare i movimenti dei personaggi che potranno agire in spazi più ampi. Takahashi realizza invece riprese di grande raffinatezza estetica, complice anche la geniale messa in scena di Resnais, gestendo in notturna, con incredibile efficacia, gli scuri che rispecchiano lo stato di tensione emotiva, consentendo di esaltare le linee espressive dei volti dei protagonisti o il senso di vivacità di una città che non intende rassegnarsi all’oblio della bomba.

Sul film di Resnais nel luglio del ’59 si apre una delle più interessanti tavole rotonde che la storia del cinema ricordi. Si tratta di una iniziativa promossa dai Cahier du Cinéma a cui partecipano nomi quali Rohmer, Rivette, Godard, Domarchi, Kast e Doniol-Valcroze. In questa discussione si identifica chiaramente il film come un’opera letteraria ed è in quella sede che Godard fa una delle sue più famose considerazioni sul cinema affermando che non vi è differenza tra morale ed estetica in quanto “è la stessa cosa. Le carrellate sono una questione morale”, dichiarazione suggerita probabilmente dalla scena della passeggiata in notturna della Riva ripresa da Takahashi in camera-car. Un altro ragionamento che nella tavola rotonda sembra cogliere puntualmente l’intento di Resnais è quello del rapporto tra l’opera e lo spettatore. Nella discussione si fa notare come i personaggi siano fastidiosi (Rohmer) o che la Riva sia piuttosto anonima (Godard) ma non per questo non destino interesse perché lo spettatore finisce per identificarsi non con il personaggio quanto piuttosto con i suoi sentimenti, alternando dunque ripetutamente momenti di identificazione e momenti di distacco. I personaggi, dirà Resnais, “devono essere attraenti e ripugnanti, come nell’ambiguità della vita”.

In realtà il regista agisce con un intento molto preciso, che è quello di “provocare nello spettatore un cambiamento, anche estraneo all’oggetto dell’opera”. Scuotere le certezze delle persone, obbligarle a "reagire liberamente davanti a un problema, far sì che non accettino come intangibili i propri valori".

Sulla colonna sonora Resnais racconta un episodio che sembra averlo particolarmente colpito. Per la sua realizzazione si rivolge a due compositori Georges Delerue e Giovanni Fusco. Il primo dei due diverrà uno dei preferiti da Truffaut e lavorerà per molti altri registi francesi dell’epoca (Sautet, Robe-Grillet, Deray, Melville, Godard, Malle). Il secondo è stato nobilitato negli anni precedenti ad Hiroshima da una presenza pressocché fissa nelle opere di Antonioni, non ultimo Il Grido, fatto che inizialmente frena Resnais per evitare che facili giudizi portino a considerare il suo film una sorta di lavoro volutamente ispirato al regista italiano. Fusco viene alla fine scelto, nonostante dette perplessità, ed arrivato a Parigi legge una copia dell’opera, comprendendone rapidamente il gioco delle contraddizioni e dell’oblio e realizza nella sequenza del museo una melodia analoga a quella di Eisler in Notte e Nebbia pur non avendola mai ascoltata. Entrambi gli autori in ogni caso si (pre)occupano di integrare nella colonna sonora elementi che richiamino sonorità tipicamente giapponesi.

Qualcuno ha affermato che Hiroshima mon amour sarebbe un film pessimista per il suo finale che sembra non dare una soluzione agli incurabili dolori del passato e per quel richiamo alle proprie responsabilità che in qualche modo si trasformano in rassegnazione priva di slanci per il futuro. In effetti l’epilogo non è da Amour Fou, da impossibilità di vivere senza l’altro, pur dichiarata da entrambi (“penserò a questa storia come all’orrore dell’oblio”), senza che la fugace storia d’amore si prolunghi: si sopravvive in qualche modo perché "quelle quarantotto ore insieme valgono più di 10 anni di benessere apparente", ovvero il letargo in cui la donna sembra aver vissuto. Il finale stesso è però lasciato come scrivevamo alla libera interpretazione personale, instillando, a detta di Sergio Arecco, il dubbio grazie al gioco delle omofonie “Il tuo nome è Never(s), Never(s) [più] in Francia”.

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