Con l’arrivo del nuovo Superman firmato James Gunn, il personaggio più luminoso dell’immaginario supereroico torna al centro del grande racconto popolare. Non è solo un rilancio per l’universo DC, è anche, inevitabilmente, un ritorno a una domanda antica: che cosa rappresenta Superman oggi? E, soprattutto, lo vogliamo ancora?
C’è stato un tempo in cui la risposta era più semplice. Era il 1978, l’anno in cui Richard Donner ci convinse che un uomo potesse volare. Letteralmente. Il primo Superman con Christopher Reeve usciva a ridosso del ciclone Star Wars, e la Warner decise di giocarsela sullo stesso piano: colossal, effetti speciali pionieristici (senza CGI, con solo cavi, blue screen e tanta, tantissima inventiva), un budget monstre e nomi da capogiro. Per scrivere la sceneggiatura venne arruolato Mario Puzo, premio Pulitzer e autore de Il padrino. Per il ruolo di Jor-El, il padre di Kal-El, venne pagato a peso d’oro Marlon Brando, che lesse le sue battute da fogli nascosti sulle pareti del set. A dirigere, un regista che fino a poco prima girava horror: Il presagio, con Gregory Peck, era stato il suo biglietto da visita. E infine lui, Reeve, uno sconosciuto con la mascella perfetta, lo sguardo buono e l’ironia mai urlata. Bastarono pochi minuti per capire che era Superman. Anzi, che era l’unico Superman possibile.
Superman è il supereroe per antonomasia. Non solo perché è stato il primo, ma perché ancora oggi resta il più difficile da raccontare. Superman è buono e questo, nell’epoca in cui cinismo e antieroi fanno cassetta, è quasi una colpa.
Eppure, Superman continua a tornare. Perché è un’idea più che un personaggio: l’incarnazione ingenua, sì, ma potentissima, di ciò che vorremmo essere se non fossimo così umani. Nato su Krypton e cresciuto nel cuore del Kansas da due contadini che gli insegnano la compassione prima della forza, Superman è l’alieno che diventa uomo. L’esule che ama la sua patria adottiva più di chi ci è nato. Il figlio che onora due padri, uno biologico e uno terrestre, senza mai dimenticare nessuno dei due. È, insomma, il sogno americano nella sua accezione migliore: quella in cui chi arriva da fuori può diventare parte della storia, non per conquista, ma per scelta d’amore.
Il suo sguardo sul mondo non è quello di chi giudica, ma di chi protegge. E se sembra sempre fuori posto, troppo puro, troppo corretto, troppo convinto che il bene esista ancora, è perché il mondo ha cambiato le regole mentre lui non ha mai voluto farlo. Superman è l’eroe che non mente, non inganna, non si nasconde. E proprio per questo oggi può apparire ingenuo. Ma forse è solo coerente. Forse ci fa paura perché ci ricorda com’eravamo (o come volevamo essere) prima che cinismo e pragmatismo diventassero le nuove super-forze.
E poi c’è l’altro paradosso di Superman, quello più sottile. Con i suoi poteri potrebbe essere qualunque cosa: presidente, scienziato, star del rock, influencer da milioni di follower e sì, ovviamente anche tiranno. Invece sceglie di essere Clark Kent, giornalista di provincia con gli occhiali troppo spessi e la postura sbagliata. Perché nella scrittura, nel raccontare il mondo, Superman non ha vantaggi. Nessuna superudito o visione a raggi X può sostituire il dubbio, la fatica, la ricerca. Clark scrive perché è la sola cosa che può fare come un uomo. E vuole esserlo, un uomo.
Un uomo, tra l’altro, figlio di due creatori ebrei (Jerry Siegel e Joe Shuster) che negli anni ’30, da figli di immigrati, avevano visto il volto dell’esclusione e il peso dell’identità. Kal-El, il nome kryptoniano di Superman, può essere tradotto come "voce di Dio". Non proprio un dettaglio casuale. Superman nasce come mito americano, ma porta dentro un’eco dell’Esodo, della diaspora, della speranza in una patria che accolga invece di respingere.
Il trailer del nuovo film di James Gunn sembra voler recuperare proprio questa matrice: un Superman che salva, che impedisce la morte, che si assume il peso delle scelte morali senza mai pretendere il potere. Non c’è ironia, non c’è nichilismo. Solo responsabilità. È un trailer sorprendentemente politico, che afferma (quasi ingenuamente, quasi scandalosamente) che un potere più grande implica veramente una responsabilità più grande. Naturalmente, la domanda sorge spontanea: a che titolo Superman fa tutto questo? Chi glielo ha chiesto? Da chi ha ricevuto il mandato? È un tema che già i film di Snyder avevano sfiorato, con esiti divisivi. Gunn sembra rispondere senza ideologia: lo fa perché può. E perché, se non lo facesse, sarebbe peggio. Non c’è arroganza in questa risposta, solo il desiderio di non restare fermi. Di non rassegnarsi. Di continuare a credere che si può ancora salvare qualcuno, anche solo uno.
Superman (2025): David Corenswet


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