Si è conclusa il 27 maggio scorso la sesta stagione di “The Handmaid’s Tale” andata in onda su TimVision, dove con questa serie fa la sua fortuna e spicco quanto la Saldapress con “The Walking Dead”.

Alla prima stagione con molta supponenza commentai drasticamente, ed è tuttora li “serie pregevole ma abbastanza prevedibile nella sua distopia poco riuscita!”, che a rileggere adesso a distanza di anni mi fa particolarmente vergognare, per quanto nelle ultime stagioni ho atteso le successive fino a quest’ultima dove ho gioito, quasi pianto con momenti di WTF per quanto tutto sembrava al posto giusto nel momento giusto.

Non posso certamente dire che nelle 6 stagioni di 66 episodi complessivi, dal 2017 al 2025 siano state dipanate le varie motivazioni di perché le donne non siano fertili, perché esistano le colonie radioattive e da cosa siano state provocate e dei motivi che abbiano portato allo Stato di Gilead, tutto questo non è dato saperlo.

Ma poco importa perché sempre più la trama e le vicende del racconto dell’ancella, nel proseguire delle stagioni corrono sempre più a fianco con la realtà odierna, dove sembra che i diritti vengano più oppressi e negati anche dove non ci saremmo mai aspettati.
I comandanti di Gilead sono sempre più cattivi, e tutti i comprimari sono superlativi nei loro ruoli, e non hanno nessuna remora a fare giustiziare alla pubblica gogna donne di qualsiasi rango, siano esse concubine, marte o zie, per dimostrare l’esempio di un potere che non cede al ricatto, alla cospirazione alla mancanza dei valori di Dio, dove però tutto questo moralismo viene calpestato di diritto nel limbo ipocrita di Jezebelle dove l’uomo timorato dimostra che non può vivere solo di spirito.

Ma in questa follia ci sono comunque sempre delle eccezioni, il comandante Joseph Lawrence, che fino all’ultimo cerca di insegnare a leggere alla sua figlia acquisita, e Nick Blaine che ama così talmente June che pur valendo il principio degli opposti, riuscirà ad allontanarla sempre più, fino all’inesorabile.




E poi c’è Janine che muore, risorge si adatta si perde, si trasforma ha innumerevoli vite, fino a preferire di essere morta, ma alla fine è meglio per lei vivere, se non altro per vedere come andrà a finire.

June Osborne interpretata da Elisabeth Moss è la figura più spietata, vendicativa, temeraria e meravigliosa che da anni sognavo di vedere, certamente durante le vicende tanta fortuna ha di per se e molto altro aiuto gli viene fornito da tutte le figure di contorno, che gli si avvicinano, ma funziona così il gioco, non sempre le cose vanno come devono andare, almeno così sembra, ma poi interviene la cavalleria e tutto si aggiusta.



Ho imparato nelle ultime stagioni a riconoscere in breve tempo gli episodi girati dalla stessa Elisabeth Moss, sono infatti quelli più feroci, disturbanti, dove l’azione degli eventi che si sono avviluppati negli episodi precedenti diventano concreti, con momenti di pathos estremi, insomma senza mezze misure pure i più cool. Senza contare l’uso perfetto delle scelte musicali di brani famosi, in altre versioni, e la soundtrack del compositore Adam Taylor.
Un racconto circolare che si dilunga ben oltre la durata del libro di Margareth Atwood, ma che con uno stratagemma ben orchestrato, si torna all’inizio dove non è detto che tutto venga scritto, ma che noi invece conosciamo bene.



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