L'argomento
Il film è ambientato a Roma; il mondo è quello dei fumetti e (come contrappunto ad esso) quello di una famiglia di provinciali trasferiti a Roma. L'epoca è quella stessa in cui viene girato il film. L'argomento è dunque fortemente autobiografico, come lo era stato quello del film precedente, Luci del varietà, diretto in collaborazione con Lattuada. Anche a non voler credere alla fuga infantile di Fellini per unirsi ad una compagnia di guitti, o alla sua collaborazione con Fabrizi in una compagnia teatrale, cui accenna, in forma dubitativa, Angelo Solmi, nella sua biografia di Fellini, è comunque certo che questi ha avuto frequenti contatti e grande interesse per il mondo dei commedianti. Provinciale, venuto a Roma per evadere dal chiuso mondo di Rimini, ha lavorato a lungo (nel Marc’Aurelio) vicino alla sede di un giornale a fumetti. Infine la stessa impostazione satirica del film rientra nella linea del suo lavoro precedente: "il deforme della borghesia, il suo bloccamento nel grottesco, è stato certo un filone preciso della miglior vignettistica del Marc'Aurelio".
Il costante riferimento autobiografico fa già supporre in Fellini un fondo di simpatia verso i suoi personaggi: simpatia che si rivela chiaramente soprattutto quando essi sono più addolorati, quando crollano i loro miti. L'ironia investe soltanto la mitizzazione in se stessa, l'idolatria, senza toccare il soggetto né l'oggetto di essa.
Vedremo infatti ne I vitelloni, film immediatamente successivo a questo, come, in un contesto diverso, sia proprio la piccola borghesia provinciale, vista pur sempre nei suoi medesimi atteggiamenti tradizionali e nei suoi meschini interessi, ad apparire in luce positiva: perché qui le alienazioni sferzate saranno altre, mentre quei borghesi rappresenteranno proprio, pur con le loro meschinità, la realizzazione di una vita semplice e spontanea. Resta, in entrambi i film, la capacità - sempre felice, e tipica in Fellini - di cogliere e deformare quanto di falso c'è nella società in cui vive; ma i due film, nella loro significativa successione cronologica, confermano quanto l'argomento autobiografico del primo ci suggerisce: che l’impegno del regista non è sociale o classista, ma generico contro ogni forma di mistificazione.
Il soggetto
Ivan e Wanda Cavalli, piccoli borghesi provinciali, giungono a Roma in viaggio di nozze; hanno in programma di vedere parenti importanti di Ivan e di andare con loro in "udienza" dal Papa. Ma non staranno mai assieme, in quel primo giorno e prima notte di nozze: appena arrivati in albergo, mentre Ivan riposa, Wanda corre a vedere un attimo il suo idolo, lo sceicco bianco, eroe di fumetti. Trascinata dalla compagnia dei fumettari, viene improvvisamente e quasi inconsapevolmente portata fuori Roma, dove vedrà finalmente il suo idolo, e con lui vivrà qualche ora nel mondo dei suoi sogni.
Frattanto il marito si preoccupa soprattutto di nascondere ai parenti l'inspiegabile fuga di lei, per salvare "l'onore dei Cavalli".
Wanda, delusa dalla falsità del mondo dei fumetti - che era il suo vero mondo -, tenta di uccidersi, dopo aver rifiutato le interessate offerte di aiuto di un frivolo "commendatore". Analogamente Ivan, costretto a raccontare nomi e fatti alla polizia, fugge; anch'egli rifiuta le offerte di una prostituta e, al mattino, si rassegna a raccontare tutto ai parenti.
Ma proprio in quel momento giunge una telefonata dall'ospedale dove è stata ricoverata Wanda, sana e salva. I due sposi si ritrovano così appena in tempo per correre a San Pietro e andare in udienza dal Papa, assieme a tutti i parenti. Solo qui, sottovoce, possono assicurarsi a vicenda dell'inesistenza di un tradimento. E Wanda assicura: "Ora il mio sceicco bianco sei tu".
Il racconto: struttura e significati.
Il film, come si vede già dal soggetto, è strutturato sul parallelismo delle vicende dei due sposi, ognuno alle prese con il suo mito, la sua ragione di vita: il mondo dei fumetti per Wanda, l’onorabilità del proprio nome per Ivan. La prima parte del racconto si centra infatti sulla quasi involontaria partenza di Wanda con i fumettari, mentre Ivan, uscito per cercarla, viene trascinato dalla corsa dei bersaglieri; questo è il climax della prima parte e uno degli episodi più riusciti del film. Un altro episodio riuscitissimo, secondo nucleo attorno al quale si raccoglie narrativamente tutta la seconda parte, è il crollo di tali miti. Ivan, dopo aver tanto faticato per nascondere a tutti la fuga di Wanda, è costretto a raccontare tutto alla polizia e Wanda viene presa a schiaffi e derisa dalla moglie di Nando, lo sceicco bianco.
Strutturalmente il film continua fin qui a ruotare attorno all'unico perno dei due miti che entrano in crisi; non si ha sviluppo, nei protagonisti: morto il sogno, Wanda deve morire con quello (e sempre secondo le leggi del fumetto: buttandosi in Tevere, di notte, dopo aver confessato il "baratro fatale" e chiesto perdono); la confessione che Ivan si rassegna a fare ai parenti è un analogo suicidio, per chi vede nell'onore familiare l'unico valore della vita: nessuna possibilità di altre soluzioni: non riesce il "commendatore" a sviare Wanda, come non riesce la prostituta con Ivan. Unica soluzione è il suicidio; evitato questo, i miti devono risuscitare integri anch'essi: Ivan ha salvato il suo onore, Wanda ha ritrovato il suo sceicco.
Mi sembra di poter escludere l'ipotesi avanzata da alcuni critici, che Wanda sia ora cosciente che il suo mito durerà poco: anche se da un punto di vista puramente psicologico si può spiegare anche partendo da tale ipotesi la frase conclusiva di Wanda come volontà di ricostruire un mito che si sa perduto, o come arrendevole rispetto e rassegnazione al marito, o come soluzione provvisoria accolta per stanchezza o per necessità (per quanto, in questi casi, si dovrebbe riconoscere a Wanda un'intelligenza ed un senso di umorismo e di autoironia che essa certamente non ha), l'aspetto ingenuo ed estatico di Wanda, lo stupore spaventato del marito, la stessa conclusione chiaramente pessimistica del film (proprio come palese parafrasi ironica del "lieto fine") escludono una, sia pur parziale e non ancora attiva, demitizzazione da parte di Wanda. Del resto, tutta l'analisi strutturale testé fatta dimostra la riconferma del mito in Wanda.
A prima vista, infatti, il soggetto poteva portare a un'interpretazione semplicistica, con tradizionale lieto fine - e tale si presenta, formalmente: una sposina infatuata di fumetti provoca, per questa sua mania, una serie di guai a sé ed al marito, finché scopre che non il protagonista del fumetto, ma il proprio marito deve essere il vero scopo della vita. Certamente tale è l'interpretazione data da Wanda, ma gli sviluppi di tale situazione nei film successivi confermeranno che non è questa la posizione di Fellini.
Tuttavia dall'analisi strutturale del film, e particolarmente dal costante parallelismo - perfin troppo didascalico - delle vicende dei due sposi, appare già chiaro che entrambi i miti sono ugualmente messi alla berlina, e che entrambi ugualmente sono radicati nei due protagonisti: anche il sogno di Wanda non è sfumato; soltanto ne è mutato il protagonista, a tutto vantaggio del sogno stesso, che ora può involgere in sé completamente la realtà: non più solo il sabato, giorno d'uscita del fumetto, ma tutta la settimana ora sarà per Wanda un vivere nel suo sogno.
Già in questo suo primo film, dunque, Fellini imposta la sua lotta contro la mistificazione della vita; anche se qui non è ancora sviluppata - in contrappunto - la rappresentazione di una vita positiva nella sua autenticità. La figura di Cabiria potrebbe avere una tale funzione (e il fatto che sia impersonata da Giulietta Masina lo conferma) ma in pratica il modo con cui essa viene presentata la riduce a simpatica macchietta, priva di valore emblematico.
Analisi critica.
Prima scena: l'arrivo di un treno alla stazione. Nella gran confusione di Stazione Termini, gruppi di boy-scouts, suore, preti: Fellini doveva essere stato colpito, come ogni turista, al suo primo arrivo a Roma, dal gran numero e varietà di religiosi che vi si incontrano dovunque: sarà questa una sua costante figurativa (che acquisterà anche un valore tematico, sia pure vario e non assolutamente definito), così come lo sarà quella dei ragazzini ordinati e guidati, appunto, da religiosi (qui i boy-scouts, nel film precedente le comunicande).
Ivan appare subito in deformazione decisamente caricaturale, da farsa. Anche una satira richiede maggiore umanità nel protagonista, per essere efficace; infatti la figura di Ivan oscillerà sempre, durante il film, fra una posizione di farsesco contrappunto alla vicenda di Wanda, e quella di protagonista, che gli spetterebbe per il rilievo che occupa la sua storia nell'economia del film, e per l'importanza artistica di alcune scene che lo riguardano.
Sulla carrozza, Ivan parla con sussiego all'enorme cocchiere, stagliato imponente contro il cielo: chi dispone di un tal cocchiere, con una frusta che pare un palo della luce, andando ad intrecciarsi in alto (nell'immagine fotografica) ai fili della corrente, deve trattarlo con signorilità e gettare solennemente il nome dell'albergo. Il breve episodio ci dà già alcuni elementi importanti di Fellini e della sua arte: anzitutto cogliamo un'altra volta il carattere - lineare: appunto, da farsa - di Ivan, che adatta ingenuamente il proprio comportamento alle situazioni: provinciale desideroso di ben figurare in un ambiente che egli considera molto più importante del suo, in un momento che può segnare una svolta nella sua carriera e quindi nella sua onorabilità, è tutto attento a reagire nel modo giusto ad ogni fatto; alla stazione, in mezzo a tanto movimento convulso, anch'egli si agita frettolosamente; sprezzante e prepotente con i facchini, proverbialmente appartenenti a una classe sociale inferiore, assume ora un'affettata signorilità con il cocchiere, certamente abituato a trattare con signori. Poco dopo, all'albergo, di fronte al grosso portiere che sta annotando i loro nomi, e perciò sa che sono in viaggio di nozze, farà la parte dello sposino innamorato, tenero, premuroso, ma anche intimidito. Telefonando ai parenti, diventerà raggiante: deve esserlo perché è in viaggio di nozze, e perché parla al "carissimo zio" (durante tutto il film avremmo modo di constatare che non è uomo da entusiasmarsi sinceramente se non per l'onore familiare; ma appunto perciò e così radicato in lui il culto del comportamento sociale, che non si accorge neppure di recitare; e manifesta gioia anche all'aspetto, che al telefono non può essere notato). Finalmente, salito in camera, rivelerà chiaramente questa sua costante preoccupazione di "relazioni sociali".
Il cocchiere è già una figura consueta di Fellini, nel suo aspetto e nel modo di presentarsi: colto un attimo, caratterizzato fisicamente, tipico, ha in comune con tanti altri personaggi felliniani, pur altrettanto tipici, le dimensioni enormi, la grassa imponenza animale, che diventerà col tempo grottescamente mostruosa, oppure (e spesso contemporaneamente) simpaticamente viva, carnosa.
Piazza dell'Esedra, con la fontana: prima piazza e prima fontana, fra le tante di Fellini; immagini che ritornano perché gli piacciono figurativamente, e non per qualche valore simbolico (che, comunque, non andrebbe considerato qui, ma, semmai, nell'analisi precritica, qualora servisse alla ricerca del "significato" del film), come vorrebbe la critica francese, tutta tesa a cercare ovunque simbolismi nell'opera di Fellini.
Vedremo infatti che in Giulietta degli spiriti, unico film di Fellini in cui mancano le fontane, la stessa immagine è data dal salice antistante la casa di Giulietta; ciò non nega, anzi, conferma, che l'immagine possa essere espressiva di sentimenti: qui, forse, di una certa facile allegria spumeggiante, ma convenzionale, e viceversa, nelle visioni notturne, di un senso di solitudine e di desolazione (lo ritroveremo in questo stesso film).
Ma è, appunto, l'immagine ad essere espressiva: qui con il festoso scintillare dell'acqua; più tardi con l'indifferente movimento continuo, ancora, dell'acqua, e con la mole imponente della fontana, dinanzi alla quale immiserisce ironicamente la figura rincantucciata di Ivan; nell'episodio, più seriamente drammatico, de La strada, con la sua asciuttezza ed immobilità; quasi convenzionalmente morbida e sentimentale nella citata visione del salice di Giulietta.
Naturalmente, oltre all'analisi formale, occorre considerare anche i contenuti dell'immagine per riconoscerne l'espressività; ma questo non significa riconoscervi dei simboli, ossia dei significati convenzionali legati a una certa società, e pertanto perituri. Comunque, un'immagine non può avere come sua giustificazione solo il fatto di piacere al regista o di essere, in qualche modo, espressiva. Qui, a parte l'ovvia giustificazione narrativa che per andare dalla Stazione Termini all'albergo bisognava passare da piazza Esedra, c'è il fatto che un cocchiere trasporta sempre i turisti per i luoghi tipici; e soprattutto c'è il tono provinciale con cui è vista Roma, in immagini da cartolina illustrata: è coerente con lo stile da fumetto sentimentale, che sarà oggetto di satira nel film, e col personaggio di Ivan, che vuol visitare Roma secondo i clichè delle guide turistiche. Notiamo infine che piazze e fontane sono elementi costanti del gusto barocco, al quale è stato spesso avvicinato Fellini. Si dovrà poi vedere se l'accostamento è più sostanziale, o se si limita ad analogie formali.
Ho analizzato questo episodio più a lungo di quanto esso non meriti, perché è il primo; il discorso fatto qui varrà anche in seguito: Fellini inserisce sempre elementi figurativi a lui cari, e che perciò ritornano in ogni suo film, senza farli pesare: hanno ovunque una giustificazione narrativa e insieme una varietà di funzioni nell'economia del film, dal suggerimento di una certa atmosfera al completamento coerente di una psicologia.
In albergo, incontriamo il portiere: altro personaggio tipico, delineato con pochi tratti; anch'esso grasso ed imponente. Ma non mi sembra che abbia l'importanza che qualche critico gli attribuisce: è ancora vicino a certi tipi della tradizione neorealista (da cui Fabrizi è stato ampiamente sfruttato), con la sua mezza severa indifferenza, mezza interessata partecipazione, da buon romano.
Subito dopo, un altro prete.
Furio, il giovanotto "tuttofare" che porta le valigie, e accompagna Wanda in camera, è un tipo diverso di personaggio, più caratteristico di Fellini per la funzione da lui assolta, che non per se stesso: lo vediamo una prima volta in attesa di ordini dietro ai due sposi, durante la conversazione di questi col portiere, in un'immagine che non si interessa a lui, ma serve a rendere naturale il suo ingresso in primo piano, e quindi ad attenuarne l'importanza. Lo ritroviamo per tutto il film, sempre più caratterizzato, ma sempre solo come macchietta, senza attirare l'attenzione: c'è, perché era già lì e nessuno ha pensato a toglierlo; non ci stupiamo di vederlo né di come si comporta, perché ci siamo lentamente abituati a lui. Non lo abbiamo quasi mai notato; eppure il suo modo di fare (da burattino) non è certo normale. Ha una funzione ironica come altri personaggi in Fellini, serve a distaccare lo spettatore, con un sorriso, dal racconto, generalmente proprio quando i protagonisti vi si inseriscono maggiormente. Contemporaneamente può contribuire, alle volte, allo svolgersi della narrazione: qui serve a separare Wanda da Ivan, e consentire a lei di informarsi sullo sceicco, e di rivelare così il suo carattere, finora rimasto sconosciuto, e ad Ivan stesso di chiarire il suo, nella breve sfuriata che le farà. O anche alla caratterizzazione di un'atmosfera, sempre grazie a qualche facile battuta comica: qui, prendendo a pugni l'ascensore per farlo funzionare, ci dice il tipo di albergo in cui sono alloggiati i due sposini (e contribuisce così, a posteriori, alla comicità dell'ordine dato con sussiego da Ivan al cocchiere).
La sfuriata di Ivan ci presenta i parenti "altolocati", dandoci tutto il senso tragicomico, per lui, dell'imminente fuga di Wanda. Il programma, che egli enuncia, della visita a Roma in compagnia di quei parenti assume, nella sua evocazione, il tono epico di un trionfo, che ha come naturale conclusione l'omaggio all'"altare della patria". La musica "patriottica" che accompagna le sue ultimo parole ne sottolinea ironicamente la convenzionalità retorica.
"La cameriera".... Ivan reagisce un'altra volta nel modo opportuno. Ma non indicherò più queste sue reazioni: ormai Ivan è caratterizzato, e non muterà più, fino al pianto notturno che segnerà la sua disperazione finale.
Di facile, ma pulito effetto, l’ingresso di Wanda nel mondo dei fumetti, sola e sperduta nella vasta sala vuota. Poi, il secchio per lavare i pavimenti, come prima presentazione del mondo dei suoi sogni, e finalmente "Marilena Alba Vellardi", la grande scrittrice in persona; e noi sghignazziamo nel vederla, mentre la povera Wanda si commuove. Fellini continuerà a farci ridere, di fronte alle mistificazioni che commuovono Wanda o gli altri suoi protagonisti; ma qui l'effetto è facile, il riso superficiale. Più interessante la successiva presentazione dei fumettari: questi esagerano volutamente la loro parte, per deridere nascostamente o per entusiasmare Wanda: assistiamo così alla prima deformazione caricaturale di Fellini. Il regista principiante non osa ancora deformare arbitrariamente - né avrebbe potuto, in un film ancora di impronta neorealista, senza turbare lo stile con interventi troppo soggettivi - : lo fa perciò abilmente, ricorrendo a questa giustificazione narrativa di una cosciente reazione all'arrivo di un’"ammiratrice" ingenua e fanatica.
Wanda viene fatta condurre da Fernando Rivoli, detto Nando, interprete dello sceicco; col cambiamento immediato di scena ci aspetteremmo di vederlo; troviamo invece il marito che cammina in calzini, sul pavimento bagnato per l'acqua che lei aveva dimenticato aperta. Inizia così la serie di passaggi fra i due racconti; passaggi destinati ad ottenere facili effetti comici, come in questo caso, oppure ad indicare un forzato, perché troppo didascalico, parallelismo fra i casi dei due sposini.
Un altro prete. Questo, nero, parla concitatamente, in una lingua incomprensibile. Di immediata comicità, rivela anch'esso un gusto di Fellini; per l'esotico, lo straniero, l'incomprensibile (ma non si vada a cercarvi un gratuito simbolo dell'incomunicabilità; anche se spesso l'incomprensibile potrà, nei film successivi, acquistare anche questo significato).
Ancora il cameriere, sempre più buffo, mentre Ivan è tutto affannato. “E cosa c'è in V. 24 maggio?", "C'è il palazzo reale": e ritroviamo Wanda che contempla la discesa, come da un palazzo reale, di Oscar "il beduino malvagio" e della sua bella odalisca; sempre più irretita nel suo sogno fantastico, cui la musica aggiunge sapore magico; in mezzo a persone indaffarate, che si rivolgono a lei distrattamente, o per deriderla: sempre più sola o spaurita, proprio ora che è in mezzo a tanta gente. E', questo, un tema fondamentale di Fellini: la folla non accompagna, ma isola. E' affascinante, piacevole; Fellini la segue sempre con simpatia, e spesso anche i suoi personaggi lo fanno, ma meccanicamente, quasi fatalmente; trovandosi sempre più soli od impauriti, attoniti. Perciò Wanda si lascia mettere sul camion: è ormai troppo sbalordita per poter prendere delle decisioni.
Qui il film, conservatosi finora ad un livello di stile decoroso, si innalza sensibilmente, come finezza di osservazioni (la scrittrice alla finestra, ad incoraggiare l'attonita Wanda, con tono di materna complicità; la polemica a pernacchie, fra Oscar ed un ragazzino: dinanzi alla alienazione dei protagonisti, i bimbi di Fellini sanno conservare una miglior coscienza di ciò che è sogno e ciò che è realtà) e pienezza dell'immagine cinematografica; mentre il tono, da umoristico superficiale diventa semmai satirico, ed amaramente pensoso.
Ma è nel successivo episodio del marito che il film raggiunge uno dei suoi punti più alti: dove ritroviamo veramente l'animo di un personaggio solo con se stesso, così sbalestrato da non sapersi più quel che si fa, mentre fuori la gente impazza, e lo costringe ad adeguarsi ad essa, a mascherarsi completamente. Il passaggio ad Ivan poteva servire anche questa volta per il solito facile parallelismo: alienati entrambi, lei trascinata dalla folla dei fumettari, lui dai bersaglieri. Una levata di genio ha trasformato il facile episodio in un vero capolavoro: dapprima, immagine cara a Fellini, Ivan solo, contro un muro (davanti al Quirinale), la fronte imperlata di sudore, circondato da persone estranee e indifferenti, nel frastuono implacabile di un martello perforatore. A volte il genio di Fellini si manifesta soprattutto nella felicissima invenzione di un rumore o di un suono espressivo di uno stato d'animo, o spesso esaltante per contrasto, ma nato naturalmente dalla situazione, senza tradir l'artificio. Qui il rumore del martello appare più che naturale dopo aver visto gli operai che riparavano la strada (ancora lo stesso accorgimento già notato con il cameriere: gli operai, prima, non interessavano; ma, avendoli visti, ora non ci stupiamo del rumore). Così, subito dopo, la geniale trovata dei bersaglieri, anche materialmente trascinanti; e consentono l'uso contrappuntistico di una musica vivace, di gusto felliniano in tali occasioni, a significare, ed esaltare per contrasto, il dramma di Ivan: senza i pericoli retorici, anche qui, di una musica unicamente creata in funzione contrappuntistica (il sonoro, se non ha giustificazioni narrative ben precise, può servire ottimamente per sottolineare in chiave ironica, ma riesce sempre retorico nei momenti drammatici, e addirittura triviale se usato in funzione contrappuntistica; che è la più delicata, e perciò tanto più efficace, quando, come in questo caso, riesce perfettamente). Infine i bersaglieri suscitano notoriamente entusiasmo (quella stupenda tromba, proiettata contro il cielo, a dire l'orgoglio del bersagliere e della nazione!... e cosi piena di bonaria ironia da parte di Fellini); il che consente un'altra felice annotazione sull'inconscio adeguarsi alla folla da parte di chi vi si trova, contro voglia, immerso: anche Ivan - ormai lo conosciamo e non ci stupisce! - si unisce moderatamente agli applausi della folla - e che amarezza in quegli applausi strappati! Altro che il "patriottismo riaffiorante" che vuole scorgervi Brunello Rondi!
Sono, in tutto, quattro brevi inquadrature; e, si noti, riguardano i bersaglieri e la folla, anziché Ivan; eppure sono così essenziali da concentrare ancor più l'attenzione su di lui; tanto da illuminarne la stupenda immagine conclusiva della sequenza, in cui lo ritroviamo, al suono delle fanfare che si allontanano, mentre si china a raccogliere il cappello che gli era stato portato via; grottescamente solo, fra l'indifferenza degli ultimi passanti che seguono i bersaglieri: più solo e più abbattuto, anche fisicamente, nell'immagine buffa. E intanto quest'episodio del cappello sarà raccolto - secondo recuperi felliniani; anche se lo spirito della notazione appartiene in questo caso più genericamente ai modi del neorealismo - nell'episodio successivo, in cui il portiere, come sempre indagatore ma bonario, glielo pulirà per renderlo più presentabile, dopo avergli annunciato che i parenti lo aspettano.
Eccoli: la più normale famiglia borghese, perfettamente adattata nella più normale e stereotipata hall d'alberghetto borghese. Accanto, una massa nera dietro ad un giornale: annunzio che sarà raccolto dopo, nel modo consueto - ma con toni, come quasi sempre in questo film, eccessivamente caricaturali - quando si alzerà, rivelando di essere un enorme donnone, estraneo alla famiglia; e Ivan, tutto assorto nella sua preoccupazione, la saluterà affettuosamente, scambiandola par una parente.
Anche i bersaglieri sono ripresi, nel racconto: se ne ode nuovamente la marcia, e lo zio spiega che "oggi è festa nazionale": a giustificazione, per noi, dell'averli visti prima; ma intanto la fanfara prepara ed accompagna il nuovo sbalordito isolamento di Ivan; questo più caricaturale dell'altro, spesso quasi da farsa, ma felice in molti punti, come nella stupita curiosità dei parenti, o nel guadagnar tempo con la distribuzione dei confetti, trovati per caso nel naturalissimo gesto di metter le mani in tasca, nell'impaccio della situazione spiacevole. I confetti renderanno più naturale la ripresa dell'argomento, durante l'incontro serale con Cabiria, la piccola prostituta: l'inizio e la fine della drammatica prima giornata di nozze di Ivan sono così segnati da quei confetti, amaramente ironici; senza alcuna intonazione retorica, perché compaiono naturalissimi entrambe le volte, e sempre con effetto bonariamente umoristico; qua, si è detto, a guadagnar tempo; là, alla fine del film, narrativamente già giustificati da questo primo episodio, e occasionati da un meccanico cercarsi il fazzoletto durante il pianto, - e stilisticamente perfetti, a chiudere simmetricamente la giornata - . Ora Ivan li dà ai parenti proprio perché Wanda se ne è andata; a sera, proprio essi serviranno a commuovere la prostituta che perciò offrirà a Ivan il suo aiuto... tutt'altro che adatto ad una prima notte di nozze; ma il comico della situazione, lungi dal diventar volgare, evita invece finemente il pericolo di un facile sentimentalismo (che era infatti il maggior pericolo del neorealismo. Forse per questo Fellini ha preferito rischiare di cadere nel difetto opposto, nel farsesco).
Anche questa volta, per commuovere, Fellini cerca di farlo sorridendo: il correr dietro alla zia, che minaccia di entrare in camera per cercare Wanda, ci riporta così alle comiche del muto, con secchio rovesciato sulle scale, agitazioni generali, mimica eccessiva. La musica stessa sembra stranamente ironica, ora che Ivan ha rimediato alla meglio la situazione e tutti si sono nuovamente incamminati.
Incidentalmente notiamo come anche qui Furio, il cameriere, appaia altre tre volte: sempre in coerente sviluppo con se stesso, con tanta misura e naturalezza (da parte del regista: non certo di Furio) che non lo si nota affatto (arriviamo all'osservazione solo per una precisa volontà di analisi); eppure serve ottimamente allo sviluppo mimico del breve episodio.
Ma prima della farsesca rincorsa alla zia, Fellini ci pone il culmine drammatico della sequenza in un'altra immagine a lui cara - e l'abbiamo già trovata, in misura minore, nell'arrivo dei bersaglieri - : il personaggio sbattuto contro un brullo muro grigio, privo di ogni aiuto, solo; e, sapientemente alternate alle immagini di lui che racconta il mal di testa di Wanda (“e io le ho detto: "Prendi un Veramon" - Ha preso il Veramon - Niente. Le ho detto: "Prendi un altro Veramon". Ha preso un altro Veramon. Niente. E tanti, tanti Veramon...": il dramma vero di Ivan, già espresso dall’immagine, diventa, esaltato proprio per questa proiezione ironica, quello inventato di Wanda) le reazioni di parenti: la commossa esclamazione della zia, lo sguardo indagatore, severo, dello zio, l'afflizione di Aroldino, efficacissima, nella sua espressione mimica eccessiva; è vecchia usanza del neorealismo, anche quella del bimbo pestifero (lo abbiamo visto poco prima tenuto a freno a fatica dalla sorella; e tale apparirà ancora dopo) che al momento buono si commuove e partecipa più dei grandi; solo che qui il dolore che genera la partecipazione è falso, per cui la reazione dello spettatore è ambigua, non sai se di rilassamento ironico o di maggior commozione.
Quando, come in questo caso, l'ironia nasce dai fatti, anziché dalle deformazioni del regista, son proprio le forzature deformanti a rendere credibile il dramma: avremmo solo riso, se l'immagine di Ivan contro il muro ed il drammatico montaggio dei parenti in funzione di contrappunto non ce lo avessero fatto prendere sul serio, proprio per eccesso di falsità. Lo stesso eccesso è invece usato da Fellini, con modi analoghi, per attenuare il dramma, quando esso di fatto sarebbe serio, in forzature ironiche: lo vedremo nel suicidio di Wanda, e nelle assurde immagini e parole che lo preparano ed accompagnano.
Tutta questa sequenza di Ivan ci fa vedere il dramma della coesistenza coatta: al dramma interiore di un uomo si aggiunge quello della necessità di fingere e di adattarsi dinanzi a un pubblico - di estranei o di "amici" - sempre indifferente; tanto più indifferente e lontano quanto più vuole aiutare ed è fisicamente vicino; perché ogni uomo ha i suoi interessi diversi da quelli del vicino. Di qui l'esigenza ed il fascino delle mistificazioni collettive, nell'illusione di una vera comunicazione nella comunione del sogno. È ciò che esprimeva Wanda alla scrittrice, lamentando la lontananza spirituale di chi le vive accanto, e l'ideale adesione al mondo dei fumetti: "La vera vita è il sogno". Ed è un'alternativa sempre presente - ma sempre, in ultima analisi, rifiutata - in Fellini.
Significativo, dunque, il passaggio successivo, come immersione in un sogno: il carrello verso l'alto, sui pini di Fregene, ha un tono di favola, che ben prepara all'incontro con lo sceicco. In questo episodio esplodono i gusti pittorici e ideologici di Fellini, originati con naturalezza dalla trama stessa del racconto, di cui a loro volta suggeriscono o consentono ulteriori sviluppi e variazioni; questi e quelli contribuiscono anche, con sottili notazioni, alla determinazione di psicologie e di atmosfera: in un breve, felicissimo, complesso (all'analisi; ma risolto con geniale semplicità) intrecciarsi di elementi e funzioni narrative, figurative, tematiche, psicologiche, ambientali.
Wanda, sola, spaurita, immersa nella foresta di Fregene, è quasi disperata; un canto ne richiama l'attenzione, ed è l'inizio di un sogno (anche questo annunzio canoro delle illusioni, in un momento di solitudine e di abbattimento, è comune in Fellini; lo ritroveremo spesso, da Gelsomina che incontra i clowns annunzianti la festa paesana a Giulietta che trova, di ritorno dall'agenzia, José che suona la chitarra).
Lo sceicco appare contro il cielo, a mezz'aria, su un'altalena appesa a rami che sembrano altissimi: altra figura cara a Fellini, quella dell'uomo visto fra cielo e terra (in 8½ addirittura volerà, legato a terra da un filo, nella visione che inizia il film; così come all'inizio de La dolce vita il Cristo è trasportato in volo da un elicottero): pura immagine di sogno, che non richiede elucubrate interpretazioni allegoriche. Narrativamente l'immagine è pienamente giustificata: Nando, in attesa di lavorare, si trastulla infantilmente su un'altalena, canticchiando; ma agli occhi di Wanda, cui si sostituisce, in soggettiva, l'obiettivo della macchina da presa, si tratta dell'apparizione favolosa dallo sceicco, nel suo suggestivo costume bianco: apparizione tale da giustificare in Wanda, piangente e disperata, l'improvviso trapasso a sensazioni affatto diverse, di esaltazione mitica, in una totale dimenticanza di sé o proiezione in altro. A sua volta, la sua esaltazione è così vistosa da suggerire a Nando di impostare una divertente recitazione; e Alberto Sordi riesce perfettamente a fondere, nel suo personaggio, alcuni ineliminabili atteggiamenti romani e plebei con la forzata interpretazione di una parte eroica - e, come già nei fumettari, la forzatura della recitazione è narrativamente giustificata dall'esser fatta da un attore plebeo, ed insieme dalla cosciente volontà di prendersi facile gioco della ingenua spettatrice -. A ciò si aggiunge una buona dose di melenso sentimentalismo (il ballo; "er gabbiano ..... Caro gabbiano"; "Sciupamo tutta la poesia"), che fa naturalmente parte delle componenti di ogni buon fumetto, secondo la volontà commerciale del produttore; ma che non per questo viene inserita nel "copione" improvvisato da Nando (sarebbe stato assurdo pretendere da un attore come lui la coscienza di questa componente erotico-sentimentale della sua parte), bensì per gallismo atavico, o soprattutto per il preciso desiderio pratico di una facile avventura.
La figura di Fernando Rivoli, la più complessa e la più riuscita del film, è impostata su questa pluralità di componenti della sua psicologia e della sua azione: tutte naturalissime ed ognuna abilmente sfruttata da Fellini per trarne una grande varietà di effetti.
Qui appare chiaro come la naturalezza di un personaggio, la sua verità artistica, non sia necessariamente legata alla sua verità psicologica; supponiamo di considerare le stesse azioni di Nando, privandole anche soltanto del commento corale dei fumettari. Resterebbero altrettanto vere da un punto di vista psicologico-sociale: Nando è un romano di periferia come tanti, bello, disoccupato, che sa arrangiarsi, ossia trovar soldi con poco lavoro e conquistar donne senza impegno e con poca fatica; a momenti sentimentale, accomodante, fanfarone. E' naturale che finisca protagonista d'un fumetto per guadagnare quattro soldi, che reciti così pomposamente la sua parte per far colpo su Wanda, che fugga con lei sulla barca, ignorando allegramente le proteste del suo capo; non deve stupire, psicologicamente, neppure il fatto che, sul più bello, il bastone della sua vela ponga ingloriosamente termine alla sua impresa: Nando non è certo il tipo che sa manovrare una vela con sicurezza anche mentre si dedica ad altre attività.... Coerente, infine, il suo gran daffare per rabbonire la moglie adirata (né poteva avere una moglie diversa).
In un film di impostazione ancora oggettiva (una satira deve conservare sempre un'impronta realistica, per essere efficace) si ha spesso questa verosimiglianza psicologica dei fatti; ma, anche nel più puro realismo, essa da sola non basterebbe a giustificarli. Dopo aver visto l'infatuazione di Wanda e fatto conoscenza dello sceicco in un'atmosfera di sogno, certe reazioni plebee di Nando avrebbero potuto riuscire stonate, anche se comprensibili ad una fredda analisi psicologica. La presentazione del mondo dei fumettari ce le rende invece naturalissime: dal secchio per lavare i pavimenti, abbandonato nell'entrata, alle saporite allusioni ironiche fatte dai fumettari nei riguardi di Nando ("viene al sabato per ritirare lo stipendio": è dunque un semplice salariato), da gesti ed espressioni volgari della "troupe" ai camion vecchi e malconci, tutto ci avverte della reale figura di Nando e del suo mondo; sicché tanto maggior efficacia mitica ed insieme ironica acquista il suo fantastico incontro con Wanda. Così il ballo nel chiosco del bar, con tutte quelle stravaganti "figure", viene accettato grazie alla presenza corale di pochi semplici ammiratori (perfino un carabiniere!), che, mentre giustificano il compiaciuto spettacolo che Nando dà di sé, sottolineano ironicamente l'esaltazione di Wanda. Anche questa viene socialmente giustificata: si tratta, sì, di una esagerazione; ma tutti sono entusiasti; ed è giusto che Wanda lo sia più degli altri, poiché proprio per lei lo sceicco abbandona le altre ammiratrici. L'improvvisa partenza di Nando in barca potrebbe stupire, poiché un salariato non dovrebbe permettersi tale libertà; ma il modo con cui i compagni avvertono il "dottore" della fuga ci fa capire che Nando è avvezzo a simili indiscipline (d'altra parte ci conferma che non è fatto comune che lui se ne vada via in barca: non ci stupiremo, quindi, che, per inesperienza, finisca per prendersi una bastonata sulla nuca); inoltre i richiami isterici del "dottore" ("Rivoli, torna indietro!"), con l'ilarità che producono, rendono più accettabile la fuga stessa: l'umorismo consente sempre e spesso richiede addirittura una maggior inverosimiglianza delle situazioni. Lo stesso tono umoristico, la presenza dell'imponente moglie, e soprattutto l'accompagnamento corale dei compagni, giustifica felicemente l'improvviso mutamento di Nando noi confronti di Wanda.
Frattanto, il fatto che Nando reciti una parte mitica consente un tono favoloso, visto dalla prospettiva di Wanda; non c'è bisogno di deformazione, poiché l'ironia viene sempre opportunamente suggerita dalla stessa realtà ambigua della figura di Nando. Così alla apparizione dello sceicco segue il richiamo tutt'altro che eroico "A Nandooo!", a far crollare sul nascere ogni mito. Invece Nando tende romanzescamente l'orecchio, ad accrescere verità e fascino al suo personaggio e far ripiombare Wanda in piena illusione, mentre noi maggiormente sorridiamo. Narrativamente, il richiamo lo fa saltar giù per andare a lavorare; un altro spunto narrativo sfruttato completamente: si vedo lo "Sceicco", altissimo agli occhi di Wanda, spiccare il salto; eccolo nel vuoto! Sappiamo che non v'è nulla di acrobatico, in quel salto, presumibilmente a piccola distanza da terra. Ma Wanda ha visto lo sceicco come in sogno, lontanissimo da terra. Basta che l'operatore non lo segua durante il salto, per lasciare l'illusione di qualcosa di fantastico. Un attimo di sospesa paura, e Wanda, raggiante di ammirazione, se lo trova quasi davanti, felicemente atterrato con una vistosa flessione sulle ginocchia. Non si poteva, con maggior finezza, giustificare artisticamente l'ammirazione di Wanda e insieme farcene ironicamente capire la reale infondatezza: altra dimostrazione di come la verità naturale (fisica, o psicologica, o sociale) non solo non è sufficiente, ma a volte - come qui - nemmeno necessaria a dare la verità artistica.
Un'altra prova in questo senso ci viene fornita poco dopo: la crescente alienazione di Wanda acquista verità nel chiosco, dove essa, in mezzo ad altri ammiratori, diventa veramente protagonista, nel senso originale della parola: addirittura funge da corifeo, a dirigere il coro nelle cerimonie di culto al dio, forte della momentanea preferenza accordatale dallo "sceicco". Accentua tutto ciò lo arrivo del "commendatore" milanese, su lucente automobile, attirato anche lui (osservazione sociologicamente plausibile, ma narrativamente un po' pleonastica) dal mondo dei fumetti. Anche il suo arrivo è annunziato dal sonoro: la radio della sua auto trasmette la musica che darà occasione al ballo (Brunello Rondi, a questo punto, si è distratto ed inventa: "assistiamo, al suono d'un grammofono, ad un loro ballo"); tenuta ostentatamente a pieno volume, ci dice subito la sua volgarità (e ne avremo ulteriori conferme, nel solito sviluppo di notazioni sempre più precise; per cui le battute finali, narrativamente utili, nasceranno coerentemente da una psicologia già definita con precisione), e spiegano la preferenza da lui accordata al mondo dei fumetti, palesemente plebeo. Del resto, il suo è un arrivo in secondo piano e tale resta durante tutto il ballo (primo spettacolo felliniano di automitizzazione, di contemplazione del proprio personaggio, da parte dello sceicco); si spoglia, restando in canottiera, sullo sfondo, attenuando così ironicamente lo sguardo ammirativo di Wanda. Quando apparirà per la prima volta in PP, inserendosi nelle riprese dei fumettari, sarà unicamente in funzione umoristica, e perciò facilmente accettabile. Sicché quando diventerà necessario alla narrazione e alla tematica del film, sarà già una figura acquisita: la sua presenza non risulterà artificiosa.
Finalmente, anch'essi annunziati dal sonoro (un suono di tamburi lontani, durante il ballo: altro sovrapporsi tipico), cogliamo in azione i fumettari. È questa la prima decisa deformazione grottesca di Fellini, giustificata narrativamente come successione delle singole fotografie del fumetto.
L'episodio è importante perché rivela il sottofondo erotico dei fumetti; Wanda non lo capisce, ed ingenuamente si lascia vestire da "baiadera" per recitare una parte nel romanzo (come sarà più amaro, anche perché cosciente, l'adattamento di Giulietta nel fumetto di Susy: "la faccio bene, la parte?"); ma intanto, attorno a lei, quello che era il suo mondo di sogno si rivela a noi essenzialmente nella sua componente erotica o superficiale. Il mito del sesso, o l'erotismo dei miti, tornerà spesso, in forme sempre più mature, in Fellini: suggerendo le più svariate e contrastanti interpretazioni. Per ora si tratta però di un elemento secondario nell'economia del film. L'interesse di questa scena è dunque soprattutto anticipatoria, di modi stilistici e di spunti ideologici; la realizzazione si mantiene dignitosa, ma fino alla visita alla polizia avremo raramente intuizioni eccezionali.
Toni farseschi ha la telefonata di Ivan all'albergo, raccolta, anche questa, da Furio; gratuito l'episodio, facili e scontati gli effetti comici che ne derivano. Più incisiva la recita della poesia, perché la comicità nasce spontaneamente da una situazione drammatica: costretto a cantare il suo amore proprio mentre lei, in viaggio di nozze, lo ha lasciato. Felliniano l'arrivo della "fetuccine calde, calde", a rompere la commozione, e soprattutto la voce fuori campo dello zio che le decanta, che "parla, parla" (dirà Giulietta, in un'analoga situazione), convinto, mentre Ivan non l'ascolta - e noi nemmeno - se non come suono fastidioso, che accentua la sua oppressione. Stessa funzione adempiono i due cantanti con la chitarra che parlano del sole proprio a Ivan che non può ascoltarli.
Il sole invece, e l'illusione, illuminano Wanda, nel consueto, facile stacco. Facile anche l'incalzare dei fatti. Ho già accennato alla funzione corale della "troupe", anche durante la fuga in barca, ed al richiamo del "dottore". Ma questo richiamo ha un fascino spontaneo innegabile, indipendente dalla sua funzione narrativa - invero piuttosto debole -. Forse la ragione di tale fascino consiste nel tono di fiaba ottimistica con cui viene descritta, in forma quasi stilizzata, l'impotente e quasi isterica volontà di un uomo di impedire il realizzarsi del sogno dei protagonisti (non si dimentichi che spesso, in queste pagine, l'obiettivo si sostituisce allo occhio di Wanda). Il confronto con un analogo episodio di Giulietta degli spiriti, ben più poeticamente riuscito, ci può confermare una tale ipotesi: la stilizzazione fiabesca diverta in quest'ultimo film più evidente (accentuata anche dai colori vivaci), e cosi pure la simpatia per i fuggitivi, mentre l'uomo che li richiama indietro diventa chiaramente un cattivo (ma si tratta della rievocazione fantastica, del sogno di una bimba come, nel nostro film, della visione soggettiva di un'ingenua sognatrice: nessun vero manicheismo, in Fellini!).
L'inizio del viaggio in barca si sviluppa infatti coerentemente, secondo i canoni della fuga dal mondo cattivo, in un ambiente fantastico di evasione: "Che strano! Mi sembra di non essere più io!" confessa Wanda. E Fellini commenta facendoci vedere il mare che oscilla dolcemente. Nando si commuove, dinanzi al gabbiano. Wanda lamenta che un destino avverso li separi. Nando racconta una storia fantastica. L'immagine scorre con delicatezza, così come il mare e la brezza, per non turbare un'atmosfera tanto leggera; l'ultimo intervento ironico era stato proprio la stilizzazione del richiamo del dottore, ad annunziare la fuga totale nel sogno; richiami alla realtà diventano ormai vani; Wanda può continuare a sognare. Perciò da quel momento, l'ironia nasce proprio dal fatto stesso che il regista non commenta, e lascia parlare i fatti, cioè i protagonisti. Sottolineo, a proposito di questa ipotesi, di una fiabesca fuga dal mondo cattivo, la opportunità metodologica, cui ho accennato all'inizio, di costanti riferimenti alla totalità della produzione di un autore: gli sviluppi riscontrabili nelle opere successive sono ancora più significativi degli annunzi contenuti in quelli precedenti, per avvalorare un'ipotesi interpretativa. Ciò vale anche per i ragazzini che suonano i tamburi, prima della fuga di Nando e Wanda nella barca: l'illusione dei ragazzi è confrontata spesso con quella degli adulti; alla finzione ipocrita o alla disperata volontà di illusione eterna di questi si oppone un equilibrato abbandono momentaneo di quelli, che hanno coscienza (o almeno inconscio sentore) di essere in una favola e non in una realtà. La contrapposizione qui è appena accennata - e l'abbiamo già notata prima, nel ragazzino che fa pernacchie a Oscar -; acquista maggior evidenza alla luce dei film successivi.
Il colpo di bastone alla nuca di Nando è un altro episodio quasi farsesco, come tanti in questo film; ma questa volta ha una funzione narrativa fondamentale, segnando il crollo del sogno di Wanda; per questo sembra arbitrario: se si può accettare qualunque evento occasionale come fonte di breve ilarità, una svolta decisiva del film andrebbe giustificata meglio. Mi sembra dunque un momento stanco della fantasia di Fellini. Il vigore stesso dalla satira alla mistificazione dei fumetti ne resta indebolito, poiché il crollo di essa sembra dipendere da un elemento così occasionale.
Va però notato che tutta la satira è esterna all'animo della protagonista; la quale resterà fino alla fine invischiata nel suo sogno, proprio perché gli elementi che la portano alla disperazione sono tutti estranei al sogno stesso: non lo pongono in crisi in quanto tale, ma solo nelle persone e nei fatti in cui si era realizzato finora. Bisognerà aspettare ancora per vederlo porre in crisi definitivamente nella sua sostanza.
Altro facile stacco su Ivan, che assiste, in teatro, al "Don Giovanni" di Mozart. Evidente - ma solo su un piano culturale - il contrasto ironico fra il raffinato amoroso e Nando. La musica continua a fare da contrappunto mentre Ivan telefona in albergo per avere notizie della moglie. Rispondo il portiere, ormai caratterizzato.
Efficacissimo, nella sua asciuttezza, il paesaggio successivo: l'inquadratura della jeep dei carabinieri, E' il secondo nucleo narrativo del film, ed il secondo episodio veramente riuscito, di schietta impronta neorealista; peccato l'eccesso di farsa nel dialogo della parte centrale; peccato anche l'evidente parallelismo ingenuamente facile, ma non stonato - anche perché coerente con la struttura generale del film - fra il crollo del mito del decoro nell'indagine subita da Ivan e quello del sogno di Wanda nel suo ritorno sulla spiaggia. Ma sono pecche generali del film che non tolgono vigore a questa bella pagina. A proposito della quale è stato fatto spesso il nome di Kafka, con riferimento a Il castello. Certamente Kafka è uno dei pochi scrittori europei letti e amati da Fellini; i richiami, almeno formali, alla sua opera sono palesi: l'asciutta oggettività iniziale, degna del miglior neorealismo, si attenua spesso in compiaciute osservazioni formali sull'aspetto ossessivo dell'ambiente: fughe di corridoi, scale vuote risuonanti di echi; kafkiani sono pure gli estranei che passano in silenzio, che si interessano al suo caso per lavoro, senza nemmeno rivolgergli la parola. "Gli agenti levano di mezzo, davanti a Ivan, gli oggetti che lui prende volta per volta, nel nervosismo, meccanicamente, dalla scrivania, e questa che potrebbe essere solo una buona ‘gag’ comica assumo significato, nell’immagine, di un lasciare sempre più solo Ivan, in una prospettiva sempre più squallida, senza che lui possa aggrapparsi a qualcosa di stabile" (Rondi).
La descrizione dell'ambiente, estremamente espressiva, non rivela compiacimento stilistico. Il dramma è tutto di fatti: una violazione del proprio segreto da parte di estranei; l'ispettore che interroga Ivan, come un amico, appena ha ottenuto le informazioni desiderate rivela il senso puramente professionale del suo interessamento; il segretario batte a macchina ogni parola; Ivan è subito schedato, catalogato, diventa un "caso". Il contrappunto sonoro è ottenuto, anche questa volta follemente, dal martellante ticchettio della macchina da scrivere. Ottenute lo notizie, Ivan viene abbandonato: non interessa più lui, ma la sua scheda. Qualcuno, assolutamente indifferente ai suoi problemi, gli chiede "una mano" per il proprio lavoro. Ivan, imbambolato, obbedisce: è modo farsesco, ma qui assume tono tragico per tutto il peso della generale indifferenza che avvolge il protagonista, alla ricerca disperata di un aiuto.
Ivan fugge; ed è fuga da una quasi avvenuta violazione del proprio io, cui si era recato spontaneamente, ma contro voglia. Sono immagini purissime, serie di scorci dall'alto e dal basso, di figure isolate, lontane fra loro, in un ossessionante crescendo dell’accompagnamento musicale (questo, invero, un po’ facile).
All'uscita, ancora una volta, Ivan si adatta a ciò che fanno gli altri, si mimetizza per non farsi scoprire. Ma ancora una volta, dopo la drammatizzazione precedente, esaltata dall'immagine e dal sonoro, ricade nella farsa con il suo atteggiamento scimmiottesco. E' il solito sparire dei personaggi felliniani in teorie di uomini raccolti e schierati anonimamente, senza volti: un altro aspetto dei rapporti fra individuo o folla. Ma qui tutto è ancora visto esteriormente, su toni farseschi; il personaggio non ha evoluzioni, l'interesse è quasi soltanto visivo, il commento, quando c'è, consiste nella derisione superficiale, figurativa.
Anche il crollo del mito di Wanda conserva lo stesso carattere: una fantasia visiva, più che un'indagine psicologica. Continuano le argute osservazioni sul coro dei fumettari, troviamo nuovi risvolti felicissimi del personaggio di Nando, alle prese con la moglie - enorme, volgare: annuncio della Saraghina di 8½ - . Un ultimo tocco gli vien dato quando se ne va in "vespa", a riconciliazione avvenuta. Il pianto di Wanda è invece tutto esterno; visto nella natura circostante, nel calar della sera, nelle ombre strane che la avvolgono. In lei non c'è sviluppo: resta la "bambola appassionata", come si era presentata all'inizio della sua avventura; e così viene chiamata al megafono dalla "troupe" che riparte per Roma. Ma è proprio la mancanza di approfondimento psicologico, qui, a diventare espressivo: lamento e satira dell'invischiamento disumanizzante nel mito.
Oltre alla situazione stessa e ad alcuni personaggi, vengono qui annunciate anche altre immagini che ritroveremo, con maggior efficacia, nei film posteriori: ne La strada il cavallo che si allontana nella sera, visto di dietro, privo di ogni legame narrativo; l'apparizione di un cammello, simbolo di favolosi paesi d'oltremare, è simile ad altre immagini che troveremo in Giulietta degli spiriti", cui si ricollega pure la pineta in cui Wanda è smarrita (nella realtà si tratta in entrambi i casi della pineta di Fregene, in cui vive Fellini).
Anche Ivan resta solo. Lo troviamo pigiato nella carrozza, in mezzo ai parenti ignari; l'essere così fisicamente unito a loro acuisce la sua solitudine. Ne scaturisce perciò naturalissimo il suo pianto, quando finalmente si trova libero, seduto in mezzo alla piazza deserta, in un'immagine desolata.
Ormai si può procedere sempre più rapidamente nell'analisi: le considerazioni già fatte valgono anche per tutti questi ultimi episodi.
Si noti soltanto la bella trovata delle due prostitute: Cabiria, entusiasta, piena di gioia di vivere e facile alle illusioni, è un riuscitissimo annuncio della sua più completa omonima e "collega" de Le notti di Cabiria. Piacevolmente sorpresa anche di fronte al dolore, poiché anche questo è vita ed è spettacolo; partecipa generosamente, si interessa, cerca di rincuorare Ivan fornendogli uno spettacolo gratuito grazie all'aiuto di un mangiatore di fuoco. Ma l'interesse è solo suo, e resta ad entusiasmarsi ("Ancora! Ancora!") anche quando Ivan se ne sarà già andato con l'altra prostituta. Questa, più delicata - è commovente la grossolana delicatezza di quella grossa figura dal mestiere volgare - , cerca di frenare l'esuberanza dell’amica, per rispetto al dolore di Ivan; si commuove dinanzi alle sue sventure (mentre Cabiria anche qui si entusiasma, e chiede qualche confetto), offre il solo aiuto a sua disposizione, il più spropositato, in una simile circostanza.
Si tratta di un vero divertimento: Fellini fa il giocoliere maneggiando abilmente immagini, personaggi, fatti, suggestioni. La vicenda è ormai determinata, ogni sviluppo è scontato, i significati satirici sono chiari; il regista può concedersi questa felice fantasia, ricca di abbozzi da raccogliere in seguito. Ma il suo estro non diventa arbitrio; una volta tanto lo stesso parallelismo con la vicenda di Wanda serve a giustificare l'episodio, narrativamente non essenziale. Ho già notato il geniale richiamo stilistico costituito dai confetti. La rinuncia di Ivan alle offerte di ...aiuto, conferma l'impossibilità di soluzioni devianti in chi vede crollare la propria ragione di vita. Cabiria rappresenta un modo diverso di affrontare la vita: con amore, con entusiasmo, sia pure irrazionale, per ogni fatto. Fin dall'inizio della produzione felliniana, dunque, è affidata alla signora Masina la funzione di rappresentare il vero modo di vivere la vita, autenticamente, accettando ogni elemento di essa, anche gli episodi dolorosi, con entusiasmo, proprio in quanto elementi naturali o necessari della vita. Ritroveremo in forma sempre più chiara, più convincente, più artisticamente riuscita, la stessa volontà di adesione - spontanea prima; poi dolorosamente ritrovata anche a livello di coscienza - all'autenticità della vita, in tutti i personaggi interpretati da Giulietta Masina. Vien da pensare che essa abbia, anche nella vita reale, profondamente aiutato il regista nella soluzione dei suoi problemi esistenziali.
Un'altra soluzione è proposta da Wanda: il suicidio. Alternativa sempre presente in Fellini, ma generalmente vista in un alone di irreale sentimentalismo da fumetto. A maggior ragione qui, in coerenza con l'impostazione generale del film, essa acquista toni buffi da operetta - proprio per la vistosa esaltazione drammatica delle immagini - : derisa nei modi con cui è preparata, prima ancora che nella sua farsesca conclusione. Wanda vuol morire perché si è negata alla realtà ed è stata respinta dal sogno; e si prepara alla morte nei modi e con le parole dei fumetti.
Sul tentativo di suicidio, troviamo ancora una visione felliniana: l'angelo illuminato, visto contro il cielo nero; mentre il gesto automatico di Wanda che si fa il segno di croce, strana forma di fede superstiziosa, rinvia all'altra Wanda, la prostituta amica di Cabiria ne Le notti di Cabiria, che si segna prima di andare a ...lavorare.
Con il tuffo di Wanda nel fango ha inizio il "gran finale" comico. La banalità della conclusione del film ha bisogno, per non pesare, di un ritmo accelerato, in immagini di puro umorismo. Ritroviamo Ivan tremendamente abbattuto, pronto anch'egli al suo suicidio, cioè alla totale confessione ai parenti. Il suo abbattimento è così vistoso, proprio ora che noi sappiamo che Wanda è stata salvata ed aspettiamo la provvidenziale telefonata, da riuscire di piacevole effetto comico. La telefonata che giunge proprio all'ultimo istante; il plateale svenimento di Ivan, che rinviene poi prontamente, appena in tempo per impedire ai parenti di entrare in camera, e per conservare così il suo segreto; l'agitazione inconcludente di Furio alla ricerca di un taxi (ultima nota coerente al personaggio del cameriere); la corsa di Ivan trascinato all'ospedale, fra il dottore ed il "salvatore" di Wanda, ed inseguito dal tassinaro: tutto è affrettato, sincopato, privo di ogni indugio riflessivo.
Ciò non impedisce a Fellini di arrestarsi brevemente ad osservare qualche tipo curioso; anzi, il finale comico, assolutamente irreale, gli consente qualche deformazione sull'orlo del sentimentale e del grottesco: i due vecchi sulla panchina dell'ospedale, il "salvatore" dall'aria indolente (a dirci quanto sia stato drammatico il salvataggio; e ripensiamo alla massa di curiosi che circonderà Cabiria salvata da un vero pericolo di affogamento), soprattutto la fantastica apparizione - la più squisitamente felliniana del film - dell'uomo "ingabbiato" nella corsia dell'ospedale, seguito con curiosità dalla camera, che per un attimo dimentica Ivan; sono particolari che, posti a conclusione della corsa, servono a rallentarne il ritmo, per preparare all’arresto momentaneo di esso sull'incontro dei due sposi. Siamo orma in piena deformazione irreale; l'obiettivo può indugiare sul pianto singhiozzato, dopo avergli creato attorno l’atmosfera adatta e questo rallentamento dell'azione; mentre i singhiozzi alternati dei due costituiscono la ripresa conclusiva (con modi da tecnica musicale) del ritmo pazzo della corsa precedente.
Visti entrambi di schiena, senza scambiarsi uno sguardo, in un continuo, buffo sussulto, con parole monche pronunciate a fatica fra i singhiozzi nervosi, Ivan e Wanda si ritrovano con perfetta coerenza: lui, sempre preoccupato delle apparenze, ha portato scarpe e vestito per la moglie ed ora la sollecita a cambiarsi "per non fare aspettare" i parenti; lei, "pentita", ritroverà nel marito il suo sceicco. Anche i loro abiti ce li presentano nella loro "alienazione": Ivan indossa il vestito scuro da cerimonia, Wanda il costume da "baiadera".
Le immagini finali sullo sfondo della basilica di San Pietro, sono una divertente apoteosi dei due miti finalmente uniti: la forma sontuosa in cui si realizza questa volta il mito meschino di Ivan servo bene a convogliare in esso anche i sogni di Wanda.


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