Regia di Robert Altman vedi scheda film
"Il lungo addio" di Robert Altman è un adattamento del romanzo omonimo di Raymond Chandler, ma si tratta di una versione volutamente infedele, volta a destrutturare gli archetipi del Noir secondo una precisa intenzione di ribaltamento che in quel periodo accompagnava il regista nel suo viaggio attraverso diversi generi della tradizione del cinema americano.
Dunque, probabilmente è meglio fin da subito sgombrare il campo dal confronto con il libro e concentrarsi sul senso dell'operazione di Altman: si tratta di una riscrittura satirica, anarchica e allucinata, dove l'intreccio finisce per perdere qualunque importanza e il regista si concentra soprattutto sui personaggi, con un Marlowe insolitamente buffo e dalla battuta facile, lo scrittore Wade personaggio ambiguo e malato che è stato definito giustamente "hemingwayano" e la moglie di costui in apparenza affettuosa e sollecita, ma in realtà maestra dell'inganno e del doppio o triplo gioco.
A tratti la crudezza del Neo-noir non può non affacciarsi, come nell'inquietante scena in cui il criminale Marty Augustine spezza un bicchiere in faccia ad una delle sue amanti, che per l'epoca risulta decisamente cruda, ma per il resto si procede con dialoghi fitti, a tratti grotteschi e stralunati, alcune situazioni nonsense, un'atmosfera spesso cupa che si alterna con i momenti più leggeri creando una dicotomia che risultò sgradita al pubblico dell'epoca, causando l'insuccesso commerciale della pellicola. Se nella sceneggiatura, per quanto caratterizzata da un tocco "sovversivo", si riconosce la mano di una scrittrice come Leigh Brackett, che aveva già sceneggiato il classico chandleriano "Il grande sonno" di Howard Hawks, ancora più incomprensibile nel plot, la regia di Altman si muove in una direzione molto moderna, traendo profitto da una fotografia di Vilmos Zsigmond che sa dipingere sia vividi quadri notturni, carichi di uno struggimento e di una malinconia molto chandleriani, sia scene diurne luminose e decisamente controcorrente in cui Marlowe si muove come un folletto guastafeste, fino ad un finale, da non rivelare, che decide di troncare con le coordinate del personaggio e dell'intero genere per recuperare una sorta di moralità abbandonata, che ovviamente fece storcere il naso ai puristi.
Elliott Gould appare lontanissimo dall'immagine di Humphrey Bogart ma si rivela singolarmente adatto per il personaggio dipinto dalla Brackett e da Altman, con uno humour spesso graffiante e una presenza scenica che non passa inosservata; notevole la partecipazione di Sterling Hayden in un ruolo masochistico e distruttivo, con un altrettanto bravo Mark Rydell (futuro regista di "Sul lago dorato") nella parte del gangster psicopatico e una Nina van Pallandt di sicuro fascino e convincente nel registro della doppiezza menzognera. Certamente una delle vette dell'Altman anni 70 e del cosiddetto Neo-Noir, "Il lungo addio" merita di essere riscoperto al giorno d'oggi e puo' essere anche un buon pretesto per andarsi a rileggere Chandler, ma resta ad ogni modo uno spartiacque nella trasformazione post-moderna di un genere fra i più vitali del cinema americano di sempre.
Voto 9/10
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta