Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
Non è difficile immaginare il regista russo Aleksandr Sokurov, fine narratore onirico degli anfratti più oscuri della Storia (e dei miti), raccogliere frasi di riferimento e appunti sintetici di eventi che dal 1955 al 1991 hanno fatto tremare il mondo. Non i più importanti e nemmeno i più sconosciuti, ma quelli che il regista di Madre e figlio ha intercettato come calzanti per evocare lo spirito dei tempi, anno dopo anno. Quegli appunti, quei “diari di un regista” raccolti in lustri di osservazione e di contemplazione della Terra, diventano all’82esima Mostra del Cinema di Venezia un lungo film (più di 5 ore) di viaggio raccolto, a volte epico a volte intimo, nella storia della Guerra Fredda: da un lato le immagini di propaganda dell’URSS, pochissimo diverse fra loro nonostante il passare dei decenni; dall’altro lato (ma anche di fianco, in basso, in alto, tutt’attorno) le scritte di eventi vicini o lontani all’URSS. Una perenne evocazione del fuoricampo, del “fuori-confine”, quasi come a far implodere nella memoria dello spettatore le immagini di un’intera umanità in movimento a fronte dell’immobilismo delle immagini di regime; ma anche un costante rilancio di possibili paralleli formali ed emotivi, che stridino, si compenetrino, semplicemente si sovrappongono, per creare una Storia nuova. D’altronde in Sokurov il cinema della Storia è sempre un fatto di trasfigurazione, attraverso l’arte e il sogno (attenzione a quanto è usato con rarità il colore, e che sensazione crea), e quindi più che un discorso sui limiti immaginifici di un regime destinato all’autodistruzione Director’s Diary è un requiem trasognato, irrorato dalle musiche di Penderecki e Shoshtakovich quando non dalle voci di cantanti e politici, un’elegia del viaggio che pare il delirio di un sonnambulo che si barcamena fra archivi e parole, una perlustrazione attenta di ciò che abbiamo attraversato e dei rimorsi che quelle stesse cose potrebbero aver lasciato sulle nostre coscienze.
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