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La città proibita

Regia di Gabriele Mainetti vedi scheda film

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La recensione su La città proibita

di Ponky_
5 stelle

Il cinema di Gabriele Mainetti, sul piano strettamente visivo e coreografico, ha pochi rivali in Italia. Indubbiamente la concorrenza non è folta, ma questo non sottrae valore ad un acclarato talento, sul quale è impossibile, di film in film, non riporre crescenti aspettative.

Giunto al terzo lungometraggio, tuttavia, la sensazione che questo talento stia iniziando a deragliare verso un’insperata deriva è sempre più palpabile.

Al di là della consueta raffinatezza formale - che è fuori d’ogni dubbio in costante ascesa - bisogna mestamente constatare che “La Città Proibita” è un’opera scarica, dal costrutto tanto semplicistico quanto artificioso. La fotografia appare eccessivamente laccata, i (bei) movimenti di macchina fin troppo evidenti (ed invadenti), finanche poco fluidi, ad imbastire una struttura esile fino alla trasparenza, inconsapevole rivelatrice di una cavità di contenuto sproporzionata persino per un film di arti marziali. Certamente non si pretende un’aderenza stretta al genere, dal momento che il regista ha sempre dimostrato di amare appropriarsi di un filone per poi reinterpretarne i codici, plasmando le proprie creature in una foggia estremamente originale; eppure, qui, a latitare è proprio una delineata identità. In “Lo chiamavano Jeeg Robot” risultava fondamentale la credibilità di una Roma tangibile nella propria poliedrica trasandatezza, attraversata dal microcrimine e specchio del periodo storico raccontato; la Capitale impressionata ne “La Città Proibita” è invece un disordinato collage in cui spiccano ristoranti cinesi del centro frequentati esclusivamente da quegli stessi asiatici, una trattoria storica in cui il proprietario è ancora quello dell’insegna e CD e vinili quale consuetudinario sottofondo della quotidianità: una città-cartonato, trafelata nel persuadere della propria sana multietnicità senza mai riuscire a tratteggiarla oltre la superficie.

Dal punto di vista narrativo, il racconto procede in modalità crociera senza particolari snodi inattesi, per mezzo di una scrittura oziosa che incoraggia le soluzioni più banali possibili, ricadendo in un’ordinarietà che non duole, ma nemmeno può esigere di suscitare una qualsiasi forma di euforia lungo lo smisurato minutaggio. Tutti gli interpreti, poi, a stento raggiungono la soglia della risicata sufficienza, con menzione speciale per un protagonista intrappolato nel totale anonimato, destinato inesorabilmente a un rapido oblio.

Gabriele Mainetti sembra giunto a un punto determinante per il futuro della propria carriera, perché se le fondazioni sono state gettate, è giunto il momento di costruire, prima che queste divengano irrimediabilmente instabili.

Dopo due flop consecutivi al botteghino, pare inoltre sempre più inafferrabile la possibilità di poter occupare la casella che da tempo gli spetterebbe all’interno del panorama nazionale, ovverosia quello di riconosciuto autore di punta del cinema commerciale. Che poi questo, nel Belpaese, non esista proprio, è tutto un altro problema. Se, infatti, da una parte, le scelte produttive di cui il regista si è reso partecipe non sono spesso state tra le più oculate, dall’altra, l’industria continua a fare orecchie da mercante su una questione non esattamente secondaria, che affligge il nostro cinema ormai da tempo immemore.

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