Regia di Tim Burton vedi scheda film
Un anziano inventore (Vincent Price) da’ vita a un ragazzo chiamato Edward (Johnny Depp) ma muore prima di finirlo, lasciandogli delle forbici al posto delle mani.  Rimasto incompiuto, il giovane riceverà la visita di Peg (Dianne  Wiest), una rappresentante Avon, che si recherà al maniero dove vive e  deciderà di invitarlo a casa sua, situata nel sobborgo confinante, per  salvarlo dalla solitudine. Ben presto le vicine curiose cercheranno di  conoscere meglio il “Frankenstein” di turno che intanto si invaghirà, a suo modo, di Kim (Winona Ryder), la figlia di Peg.
I titoli di testa si presentano ai nostri occhi mostrando un incipit  colorato e vertiginoso alla maniera di alcuni temi cari al Saul Bass  hitchcockiano. La scenografia definisce da subito, in modo molto concreto, l’impalcatura narrativa attraverso meditati componenti architettonici: il castello gotico  riflette l’indole intricata, disordinata e asociale di Edward, mentre le  case del ridente villaggio, colorate in varie tonalità pastello coi  loro giardini perfettamente spianati e innaffiati, provano l’uniformazione sociale dei loro abitanti e la loro simulata indipendenza.
Quelli di “Edward” sono giardini messi in rilievo da motivi e valenze già conosciute in “Velluto blu” di Lynch: all’apparenza ideali per essere sfruttati dai bambini come  parco giochi o perfetti come luogo tranquillo di rigenerazione, anche il  verde burtoniano è simbolo di un’America (preferibilmente provinciale)  ingannevole che nasconde in profondità realtà spaventose,  tormentate e violente. La denuncia è rivolta all’assillo tutto stelle e  strisce votato alla ricerca dello stile di vita perfetto, vagamente  condizionato da modelli televisivi. Un’ideologia che tende a mantenere fuori dai giochi anche gli storici “nemici” di  colore (l’unico cittadino di pelle nera è un poliziotto che simpatizza  subito con Edward, comprendendo la sua condizione) e della quale si  percepisce l’indubbia decadenza, se non l’immutabile distanza.
La periferia è adatta per descrivere uno spazio mancante di ogni senso della storia, d’istruzione, di educazione amorosa, e Burton ci si butta a capofitto nel riuscito tentativo di rappresentarla nella sua cattiveria e apatia.  La collina, invece, sorge in modo innaturale ai bordi della cittadina,  introdotta da una serie di rovine e di sterpaglie aggrovigliate ma anche  da uno stupendo parco con cespugli a forma di drago, mani (!) giganti, renne natalizie,  anticipanti l’animo dell’isolato inquilino. Il castello è distante e  opprimente allo stesso tempo; perfetto “refoulement” della spaventata e  varia umanità circostante è quasi sempre circondato da foschie  accentuate dal flou.
Interessantissimo è il tema del diverso per antonomasia, considerato  sotto un certo punto di vista contro natura; quello che, pur volendo  esprimere il suo affetto e amore, risulta impossibilitato a  simboleggiarlo a causa delle taglienti forbici che si ritrova al posto  delle mani. La scaltrezza e l’egoismo del “popolino” si collocano contro l’affettuosa ingenuità di un cuore  puro, probabilmente fatto di biscotto, che ferisce se’ stesso piuttosto  di far male agli altri. Inserito in un contesto sociale sconosciuto è il  suo senso morale a sembrare distorto. Gli altri personaggi sono banali, monotoni,  incapaci di vivere fuori dai loro rigorosi schemi mentali e legati  indissolubilmente ai loro preconcetti. Lasciano spazio a Edward solo  come fenomeno da baraccone. La circoscritta accoglienza nella vita in comune ha un aspetto personalistico e finto libertario:  Edward è accettato in quanto artista che assume un ruolo estetizzante,  parrucchiere ispirato per donne/cagne, equilibrista ambientale  impareggiabile e abbellitore di facce umane e facciate edili.
Il rispetto per il diverso non si insegna e non esistono istruzioni nemmeno sui manuali Avon.  Di certo, la deferenza è quella che ancora non ha imparato la  squilibrata ipercristiana del borgo che sa solo suonare l’organo,  venerare le croci, leggere salmi e profetizzare maniacalmente, immersa  tra le candele, imminenti sciagure. 
“Edward scissorhands” è un’ottima allegoria del popolo statunitense e della società dei consumi da esso creata: costituita da persone irreprensibili, condizionata dallo spreco e da aspettative allineate e obbligate, la collettività pop e medio borghese creata dal regista esprime tristemente la spaventosa involuzione  generale di quegli anni. Niente di nuovo sotto il sole di un anarchico  nichilismo: gli smalti sulle unghie, le camerette da Barbie,  le pettinature soffici e le messe in piega impeccabili ripresentano in  bozzetti sofisticati le malignità disgustose, veicolate soprattutto  tramite il telefono, delle casalinghe insoddisfatte di certo cinema di John Waters.
Capita, quindi, che Burton recuperi la questione sessuale.  Non apertamente esibito ed evidente come nelle “liturgie” watersiane,  l’atto d’amore vive in contesti altrettanto bizzarri. Sotto il lavorio  delle forbici intente ad accorciargli i capelli, l’esuberante Joyce  Monroe, la vicina di casa più appassionata di Peg, sperimenta uno  splendido momento orgasmico.  Il regista riproduce sarcasticamente l’ebbrezza viziosa della ninfomane  di turno e delle sue amiche, tramite primi piani sui volti estasiati,  lambiti dalle lame di un Edward sempre integro e morigerato, solo  involontariamente complice delle beatitudini altrui e assoggettato alle  veemenze sessuali di massaie desiderose di fare un salto nel proibito, nella perversione. Non importa se  rischiano la parodia, esse muovono mostruose e corrotte come se il loro  fosse un atto di mero consumismo.
Appesantito dal trucco su di un viso pallidissimo ed emaciato, da capelli spettinati nerissimi  in tinta con la sua tuta aderente dal sapore sadomaso, tappezzata di  cinghie e fibbie e con il cucito grossolanamente in vista, Johnny Depp recita soprattutto attraverso il movimento di occhi impauriti, tremanti e gentili,  viso di gesso e un corpo che si muove a scatti, rigido perché non  abituato al contatto fisico. Ripreso spesso da primi piani indicativi,  l’attore fornisce ottimamente l’idea spirituale dell’individuo con le  forbici.
Dal vecchio, grande e buio castello rincantucciato sulla collina con vista privilegiata, al basso (in tutti  i sensi) borgo cinguettante abitato da gente più aliena(ta) di lui, il  protagonista osserva i cosiddetti “normali”. Edward sembra un persuasivo  zombie scomponibile;  sprovvisto di qualsivoglia naturalità è in perfetta armonia con i  sintetici replicanti androidi e meccanici, artificiale negli arti e  forse anche oltre, generato com’è da strutture e apparati tanto  arzigogolati e improbabili. E’ un eroe attualissimo e tuttavia  primitivo, asessuato come nella migliore tradizione burtoniana, appare  truccato come un pagliaccio triste e possiede il dono degli spiriti celesti tanto risulta conciliante e generoso.
Ma è in grado di uccidere. E, visto che abbiamo già detto delle  camerette linde ed edulcorate in stile Barbie, chi potrebbe sopprimere  se non un Big Jim?  Il biondo Jim, appunto, formato, prepotente e fanatico fidanzatino di  Kim, rende Edward un emblema dell’insurrezione fanciullesca che per  crescere ha bisogno di sperimentare, di distinguere il Bene dal Male.  Per una volta è “l’uomo con le lame” il buono della vicenda; colui che,  devastato dalla disperazione e da un penoso isolamento, si libera  attraverso un atto feroce e incontrollato.
Tutta  la favola è contrassegnata dalla figura delle lame, che torneranno a  essere protagoniste di un altro personaggio borderline quale la Catwoman di “Batman – Il ritorno”:  gli strumenti taglienti sembrano essere l’unico segno distintivo di  questi inetti all’amore. Il freddo della lama è quello conosciuto anche  da Freddy Kruger che, nel decennio antecedente, aveva messo paura a un gruppo di  adolescenti che avevano come unica colpa quella di essere figli di padri punitivi.  Genitori che, in “Edward”, sembrano perfette marionette nei loro strani  rituali: il ritorno a casa contemporaneo dei mariti per l’ora di cena e  le uscite concomitanti al mattino, la neve riprodotta fintamente e  stesa a strati sui tetti delle abitazioni.
Vincent Price, uno dei più validi e sensibili attori di sempre,  nel camice scuro dell’inventore avvezzo all’utilizzo di strani  marchingegni richiamanti, per la loro forma, alcuni oggetti misteriosi  di certa fantascienza anni ’50, prova a istruire la sua creatura  recitando fiabe e mostrandogli come abbozzare un sorriso. La sua figura si allaccia alla memoria dello spettatore attraverso flashback nostalgici e determinanti (leggi la spiegazione su come, tragicamente, Edward sia rimasto “imperfetto”).
La musica è del devoto amico di sempre Danny Elfman, abile nel recuperare le modulazioni delle grandi orchestrazioni e le composizioni musicali con carillon tintinnanti che deliziano i nostri sensi riscoprendo passati sapori infantili accompagnati da un coro bianco evocante atmosfere lugubri o festose.  L’interazione tra l’intelaiatura del suono e la dimensione prettamente  visiva dell’opera è fondante della stessa rappresentazione  cinematografica dell’azione e risulta essenziale all’evoluzione  narrativa della vicenda e all’attribuzione ad essa di senso.
“Edward” resta il film di Tim Burton più rilevante, quello più compiuto, affascinante e amato.  Ripresenta un microcosmo che vive sotto o dietro a (come indica bene la  capocciata che Edward da’ al finestrino) un vetro: una specie di luogo  magico che ci fa percorrere gli ingressi di case che sembrano finte,  sfiorare statue dalle forme impossibili ricavate dalle siepi, ammirare ingegnose forbici multiuso, stupire di fronte a congegni arcani e bramare mani di cera.
La gamma di riprese che privilegiano punti di vista dal basso verso  l’alto e viceversa, alimentano il senso della differente prospettiva  verso la quale Burton ci spinge. Sembra invitarci così a contattare  meglio la mediocrità di certi atteggiamenti anche attraverso la scelta della messa in scena  di obbligati hot barbecue per farci comprendere quanto sia forte il  bisogno di affrancarsi da ogni conformismo borghese. E’ abile nel condurre lo spettatore in uno stato di consapevole dormiveglia; ora ridestato e poi ammaliato, l’astante è un fanciullo innocentemente appagato.
Fortunati coloro i quali sono rimasti un po’ bambini e dentro se’ hanno ancora spazio per accogliere fiabe di questa levità.  Si beeranno di una neve candida e leggera: a volte uscita dalle pagine  di un libro di novelle, a volte caduta dal cielo. E’ una storia lunga ma  saremo sempre pronti ad ascoltarla, e a farci prendere una volta di  più, estasiati dall’immensa e bellissima forza di immaginazione, tra le braccia di una creatura chiamata Edward. La neve resta, ancora oggi, l’unico segno tangibile del suo amore senza tempo.
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