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After the Hunt - Dopo la caccia

Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film

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La recensione su After the Hunt - Dopo la caccia

di Ponky_
5 stelle

“After the Hunt” estrinseca un’ambivalenza di aspettative confermate e sovvertite: da una parte, un ventaglio di prevedibili interrogativi morali suscitati dalle tematiche trattate; dall’altra, uno sguardo sobrio, più propenso a scrutare che a intervenire, con la macchina da presa ad accompagnare la scena senza invaderla, in un’opera scientemente contenuta – o forse trattenuta - sul piano formale.
Il film prende vita da un ganglio di teoreticismo, denso di gratuita speculazione intellettuale, per cui la rappresentazione del potere sociale all’interno di un ambiente classista per antonomasia - così come l’accessoristica di razzismo e gender gap - viene affrontata solo per mezzo di un profluvio di parole, soffocanti nella propria astrattezza del tutto manifesta nella messa in scena. Conflitti e sentimenti stentano a trovare una rappresentazione silente, trasformando in esercizio accademico l’approfondimento di middle e upper class, relegate alla retorica antitetica del privilegio inoperoso contro il solerte sacrificio; due asettici schieramenti che dividono al contempo anche giovani e adulti, senza saper discernere il disagio collettivo da quello individuale di questi e degli altri.
Guadagnino insiste nel voler raccontare un’umanità emotivamente brutale tramite un’elegante pulizia d’immagine, sterilizzata perfino di quella pervasiva voluttuosità che da sempre ne permea sensorialmente ogni produzione, portando ad un definitivo inabissamento la già scarna dose di empatia a disposizione.
I personaggi agiscono come algide pedine di senso, utili al solo scopo di finalizzare uno sviluppo prevedibile, senza il minimo smottamento che non sia ampiamente segnalato, con una repellente Julia Roberts nel solco di un’elegante pudicizia anche nel raccapriccio, dalle posticce convulsioni ulcerose ai detersi rigurgiti gastrici al probabile profumo di rose. Michael Stuhlbarg propone, invece, una nuova variazione sull’intollerabile archetipo già affrontato in “Chiamami col tuo nome”, confermando la sua grande affinità con quella borghesia pseudo-intellettuale ostinatamente raccontata ed interpretata senza mostrare risvolti contraddittori che non corrispondano ai più superficiali possibili. A completare la prima linea, Ayo Edebiri e Andrew Garfield, che si contrappongono nella finzione filmica così come negli esiti della performance attoriale: la prima, evidentemente scritturata più per il successo riscosso con “The Bear” che per concreta affinità con il ruolo (si replica il copione di Zendaya in “Challengers”), fatica a mettere in moto credibilmente i meccanismi che le sono in capo; il secondo, unico faro nella notte, viene prematuramente eclissato proprio nel momento in cui avrebbe potuto sprigionare piena luce.
I lacrimevoli primi piani, i dettagli delle mani - dapprima “fondamentali” nella comprensione psicologica, poi improvvisamente abbandonati – e i campi e controcampi dei velleitari dialoghi a camera fissa si accatastano in uno stile espressivo rigido, che traccia poligoni di significato incompleti.
La fotografia non contribuisce a determinare l’identità degli spazi, confusa nel prediligere futili cromatismi e colpevole di una discutibile illuminazione degli interni, a delineare ambienti impalpabilmente sospesi che dovrebbero descrivere per primi le dinamiche di potere, ipocrisia e (anti)amore che li popolano.
Atticus Ross e Trent Reznor, alla seconda collaborazione con il regista dopo “Challengers” (funzionalmente musicato in rapporto al dinamismo della narrazione, per quanto in maniera sfacciata e invadente), compongono per “After the Hunt” una colonna sonora che enfatizza l’eccesso di drammatizzazione e distacco, anche per mezzo di abusati effetti sonori.
Non bastano certo dichiarazioni di intenti soggettistiche e spunti d’emulazione tipografica per ambire ad appaiarsi a Woody Allen - seppur con le debite differenze - quando a latitare distantemente è ogni capacità di far emergere un fondo di ferale ironia che non tradisca la fragilità emotiva, ma renda visibile il contrasto tra pensiero e parola, tra garbuglio interiore e manifestazione esteriore, a mettere in chiaro come il risultato sia poco altro che mera analisi, in un austero collage che guarda naturalmente anche oltre il regista newyorkese senza però riuscire ad evitare di sbriciolarsi sotto il peso di plumbei processi catartici a salve.
“After the Hunt” somiglia a un’involontaria autoindagine tra limiti e possibilità di una personalità percettibile solo in filigrana, che rifiutando punti fermi in un percorso incomprensibilmente inoffensivo, sembra realisticamente destinata a muovere il prossimo passo nel vuoto, instillando più d’un dubbio riguardo la liceità di cominciare a rimpiangere un passato di fallace sovrabbondanza fortemente identitaria.

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