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Visions - Passione mortale

Regia di Yann Gozlan vedi scheda film

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La recensione su Visions - Passione mortale

di Souther78
8 stelle

Non sarà Kubrick, ma l'estetica e la scansione delle scene e interazioni ce lo ricordano molto. Opera di indubbio fascino visivo, coinvolgente e capace di coniugare forma e contenuti. Viaggiare, partire, scappare, tornare, in fondo sempre per cercare qualcosa. Ma quel qualcosa... esiste davvero?

 
Sospeso tra l'estetica di Gattaca e quella dei migliori 007, in Visions si respira subito aria d'autore.

Confusi tra il sogno, l'incubo e la visione, accompagniamo la protagonista nella sua inesorabile spirale verso l'oblio, che, però, è al tempo stesso ricordo e forse illusione di qualcosa che è stato, poi non è stato più. Ma potrebbe tornare a essere.

 

L'incedere dei passi attraverso i corridoi, di luci e di ombre, paesaggistiche allegorie che riflettono la condizione interiore di Estelle, scandisce il ritmo sempre più serrato. I tic e le ansie di questa nostra illusoria modernità ci mostrano impunemente chi siamo, calandoci nel personaggio dell'amante perseguitato dall'agognato squillo del telefonino, e, ancor più, dalla sua assenza.

 

Acqua, cielo, terra, amore, sangue: gli elementi essenziali si susseguono, scandendo il ritmo di un racconto che, proprio sul punto di ripetersi, finisce per rinnovarsi e spiazzarci.

 

Partenze e ritorni, dentro e fuor di metafora, delineano un quadro a tinte fosche: l'unità iniziale, dominata da una routine quasi meccanica, cederà il passo a un turbinio di emozioni sopite, perenne memento de l'Orlando furioso. Sì, perchè l'amore è furor, che travolge ogni cosa, ma, prima di tutto, chi ama. Passione, nel senso etimologico del termine: sofferenza.

 

S'è vero, come ammoniva Catullo, che un tradimento spinge ad amare di più, ma a voler meno bene, nulla come Visions potrà perorarlo, percorrendo una via crucis modernizzata, nell'agio di una Porsche elettrica, ma non per questo meno latrice di sofferenza, nè del sacrificio supremo alla fine del percorso.

 

Una regia decisamente aulica, arricchita da una fotografia ricercata e altrettanto riuscita, guida magistralmente un manipolo di attori affiatati e ispirati attraverso un sentiero di (ri)scoperta della verità nascosta nel profondo.

 

Il bisogno di controllo è forse inversamente proporzionale alla capacità innata di esercitarlo?

Non è dunque la paura, che ispira sommamente le nostre decisioni, nel bene, e, spesso, nel male?

 

L'essenzialità espositiva e visiva dona all'opera un certo sapore di Kubrick, mentre la scansione di tempo e spazio è netta e delineata senza esitazioni: il continuo susseguirsi e ripetersi degli stessi scenari è strumentale all'evoluzione del personaggio e del pathos. Il senso di quiete prima della tempesta accompagna verso un crescendo rossiniano con poche incertezze.

 

Poche le sbavature: quella più percettibile, proprio nell'incipit, nel susseguirsi di campo e controcampo, con il cielo ora terso, ora solcato da infinite scie e coltri chimiche, che denuncia lo scarto temporale tra le inquadrature in modo talmente violento da sembrare quasi deliberato (forse una velata denuncia alle operazioni di geoingegneria?).

 

Qualche anno di troppo, e comunque troppo visibile, per la bella comandante, aspirante neomamma. Un gap di oltre vent'anni, poco comprensibile, come attesa per provare poi a concepire, e un marito fin troppo compiacente, sono elementi secondari che non minano realmente il risultato finale, o, perlomeno, non tanto quanto la scelta della conclusione, che lascia un po' di amaro in bocca.

 

Sicuramente meritevole di una visione per la pregevolissima fotografia, e per una regia ispirata come poche oggigiorno.

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