Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Il film, che si avvale di elementi nel montaggio, nella sceneggiatura, nell'interpretazione, nella fotografia che lo rendono grandioso, è un'immane riflessione sulla famiglia, sui riti, sul vicinato, sull'amicizia (adulti e bambini), sul prossimo come esperienza di civiltà. Una riflessione indignata nel confronto fra una cultura astratta invasa dalle maschere (naziste) della stessa ipocrisia (con un'elemento però fulminante: il lucido e stupido cesarismo di finnies che non ha bisogno di credere nel nazismo perchè LO E') e l'ingenuità degli ebrei prima nell'incredulità e poi nella accettazione ironica quasi spinoziana. Il dramma ebraico è una bicipite fontana di lacrime: da una parte è visto nel tempo proprio perchè non lo vediamo nello spazio (la bambina dal cappotto rosso), dall'altra assistiamo allo spezzettarsi delle certezze e dei legami familiari in una scena oscena preconizzata dalle vittime: "se è vero che sono tutti morti, da dove vengono questi racconti?" e allora il ricordo si fa carne di donna che urla in una stanza buia.
Ma poi esce l'acqua. E l'identificazione coi protagonisti del racconto ci rende testimoni del ricordo. NOI ora sappiamo, e lo sappiamo da vivi, anche se per tutto il film una voce di laoconte ci ha avvisato, riguardo ciò che avremmo visto.
L'intreccio di queste due retoriche ci porta da una parte a voltare lo sguardo (come kingsley e spielberg col ragazzo della vasca) e dall'altra a trasumanare l'esperienza visiva per provarla, quasi.
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